
Non si tratta della solita vecchia questione dell’uomo spaesato in una società che va in rovina: lo si è già vista accadere, ad esempio, presso i Greci. Il nostro problema ha acquisito oggi un ulteriore grado di complessità rispetto all’epoca classica; perché mentre le terribili violenze della tragedia greca si consumavano nella cornice di un mondo stabile e perciò affidabile, nella nostra realtà è invece proprio questa sicurezza prima a venir meno: il mondo si fa “liquido” (Bauman) e a noi sembra di affondare.
Un pensiero necessario, quello di Bellet, perché l’uomo non può vivere per molto tempo sulla superficie delle cose: alla lunga, la crosta della realtà gli frana sotto i piedi. Un pensiero che osa prendere risolutamente posizione a favore dell’uomo e delle sue esigenze, al di là di ogni velleità di neutralità. Ma un pensiero non solitario, né isolato, ben consapevole del bisogno di fare di questo mondo una casa comune, di tutti, dove l’unica esclusa sia l’esclusione. In questo il dialogo occupa un punto centrale e irrinunciabile: quello interreligioso e interculturale, certo, ma in primo luogo quello con l’altro, il prossimo, che si rivela e che scopriamo nell’ascolto privo di pregiudizi.
Può una fede particolare, come quella cristiana, farsi carico di un siffatto compito universale? Bellet risponde senza mezzi termini: certo, ma a patto di operare la giusta “ricollocazione” (deplacement) in uno spazio nuovo, che ne lasci intatte le proprietà ma al contempo la renda feconda in modo inedito, come un seme che finalmente trova il terreno adatto a germogliare. Intenso, affascinante, sempre nuovo e ulteriore, Bellet non smette di introdurci nelle “stanze oscure del mondo moderno”.
(«l'Altrapagina», marzo 2012)
