Mi piace la matematica, ma non amo certe equazioni: come prete = pedofilo, ad esempio. O napoletano = camorrista. Prete-pedofilo è di quelle che tornano alla ribalta una volta al mese, ormai non ci vuole più neanche la notizia specifica dell’abuso per riparlarne. È solo il pretesto per sparare nuovamente addosso a “un sistema cattolico malato” di repressione della sessualità (in particolare), al celibato dei preti (più in generale) o alla religione - cattolica, manco a dirlo - ancor più in generale. E allora, visto che è di moda, mi ci voglio mettere anch’io: e invece che “cattolicesimo boia” vorrei sdoganare: esercito boia. Per dire che - se è giusto che la Chiesa indaghi le cause del proprio malessere, come da più parti e a gran voce spesso si chiede - è giusto che lo facciano anche gli altri. A cominciare, ad esempio, dall’esercito. Perché se è vero che i problemi della Chiesa stanno diventando problemi sociali, quelli dell’esercito lo sono da sempre; e se è vero che i problemi del cattolicesimo sono intrinseci ai suoi metodi peculiari, si può probabilmente dire lo stesso della vita militare.
A Kiev, il 29 marzo scorso, il maggiore Serghei Solnechnikov è morto gettandosi su una granata caduta a un giovane soldato di leva, per salvare i suoi commilitoni. Anche nell’esercito ci sono degli eroi
Pensateci: giovani e adulti che potrebbero essere liberi, si trovano rinchiusi in una caserma; potrebbero studiare, lavorare, sentirsi utili, e si ritrovano a svolgere compiti burocratici o meccanici a mille chilometri da casa; il nonnismo - unica forma di evasione in un ambiente claustrofobico che non ha mai brillato per altezze intellettuali e fiorire di svaghi innocenti - una volta permesso l’ingresso alle donne, diventa facilmente molestia sessuale. Si fa presto, con queste premesse, a perdere la testa. Infatti, ecco come va a finire: a Marsala una donna della Marina ha denunciato due suoi superiori per aver subito un tentativo di violenza sessuale; in Afghanistan un soldato si mette a fare strage di civili (tra cui numerosi bambini) in pubblica piazza; a L’Aquila un militare avellinese di ventun anni stupra una coetanea lasciandola svenuta, nuda e insanguinata in mezzo alla neve; marines americani posano sotto a una bandiera delle SS, altri vengono ripresi mentre urinano su cadaveri nemici, mentre soldatesse israeliane si fanno fotografare in armi (ma nude) per FaceBook; intanto in Germania l’80% delle mogli di militari abbandona il marito e in Italia si indaga sull’uso della tortura da parte di esponenti dell’Arma dei Carabinieri.
Non pare anche a voi che ci sia qualcosa che non va? E tuttavia, pur sembrandomi evidente che questi non siano problemi di singole “mele marce”, ma qualcosa di ben più esteso, non me la sento di mantenere il proposito iniziale: credo fermamente che non possiamo generalizzare. Mai. Credo però che siamo maturi per una riflessione ampia e vorrei azzardare “definitiva” sul significato, sull’utilità, sul ruolo, sul costo, sul pericolo dell’istituzione militare oggi. Della guerra (e di chi la prepara) possiamo e dobbiamo fare a meno. Anche la nostra cronaca se ne gioverà.
(«Il Caffè», 13 aprile 2012)