Insomma, non funziona. Non è una questione di posizione filosofica o religiosa: è che i conti non tornano. Lo spiega con grande chiarezza Maurizio Pallante nel suo ultimo Meno e meglio. Decrescere per progredire (ed. Bruno Mondadori, 2011). Che mostra, dati alla mano, i fraintendimenti alla base della nostra visione economicistica del mondo: ad esempio, il nostro PIL cresce (e tutti lì a piangere dalla gioia) al crescere dei consumi energetici, il 70% dei quali è costituito da sprechi che aggravano l’effetto serra. Un caso lampante di come l’ottimo non coincida affatto con la crescita, ma con il suo contrario: perhé l’ottimo non consiste nello sprecare sempre di più, ma nell’ottenere il meglio tramite il meno possibile.
La decrescita può far pensare erroneamente al regresso. Ma in realtà è l’unica strada verso il meglio.
M. Pallante, Meno e meglio. Decrescere per progredire, ed. Bruno Mondadori, 2011
Non bisogna aver paura di dire la parola “decrescita”. Quando è troppo, è troppo. È vero - come qualche economista continua a ripetere alla nausea - che la crescita è una caratteristica intrinseca alla vita: ma è anche vero che a un certo punto si ferma (se no, in questo momento dovrei essere alto più o meno 120 metri). La decrescita può far pensare al regresso e alla povertà; ma, spiega Pallante, è soltanto un errore di percezione, dovuto alla falsa prospettiva per cui il “meglio” coincide con il “di più”. Il progresso, invece, deve tornare ad essere un concetto qualitativo (“meglio”) e non quantitativo (“più”). Anche il cibo buttato via tutti i giorni dalle nostre tavole fa crescere il PIL: dovremmo esserne orgogliosi?
La nostra concezione occidentale della storia come progresso conduce a identificare ogni miglioramento con il cambiamento (la chiamiamo: “innovazione”). Anche se il vecchio è buono. Anche se il nuovo è inutile. Come quelli che comprano il cellulare nuovo non perché gli occorra, ma perché “ce l’hanno già da tanto tempo”. Pallante ci spinge a riflettere su come sarebbe la vita se la smettessimo di acquistare compulsivamente cose che non ci servono a niente (e per le quali spendiamo tanto del nostro tempo al lavoro, mentre potremmo godercelo a nostro piacimento). E a prendere maggior consapevolezza delle tante bugie della narrazione capitalistica, volte a nascondere il fatto che spesso la crescita è il peggio (ad esempio, nei 40 anni tra il 1960 e il 1998, l’occupazione in Italia non solo non è cresciuta, ma è addirittura diminuita, passando dal 41,5% al 35,8%). Questo libro è un invito a prendere sul serio la proposta della decrescita: la soluzione a molti dei nostri problemi potrebbe essere a portata di mano.
(«Il Caffè», 17 febbraio 2012)