giovedì 29 settembre 2011

Intervista a Paolo Calabrò del Centro Interculturale Raimon Panikkar Italia


Nel saggio, Le cose si toccano, Paolo Calabrò affronta un tema specifico del pensiero del filosofo e teologo Raimon Panikkar, quello riguardante i rapporti tra scienza e teologia. «A causa di un vuoto filosofico e teologico, la scienza si è trovata a rappresentare, per l’uomo occidentale, l’orizzonte dei suoi desideri cosmologici», senza però riuscire a realizzarli. Le parole si sono trasformate in termini, l’esperienza ha ceduto il passo all’esperimento; l’universalizzazione della tecnologia ha portato ad una occidentalizzazione del mondo che ha sepolto numerose tradizioni. Lungi dal criticare la scienza in quanto tale, Panikkar propone di rivedere il metodo scientifico, costruito essenzialmente sulla base della logica formale occidentale, fondata sul principio di non contraddizione e del terzo escluso, al fine di renderlo compatibile con una teologia che a sua volta si sia svestita di assolutezza. La teofisica, come lui la definisce, ci rivela che la realtà è ontonomica - tutto vi trova posto armoniosamente all’interno - e che la conoscenza non può fare a meno dell’amore se vuole raggiungere il proprio oggetto di studio.


Intervista a Paolo Calabrò

Le cose si toccano, un saggio sui rapporti tra la filosofia di Raimon Panikkar e la scienza moderna. Una tematica specifica affrontata in maniera documentata e approfondita. Com’è nata l’idea per questo libro?
Innanzitutto grazie per questa intervista. Il libro ha origini molto umili: ho cominciato ad approfondire la metafisica di Raimon Panikkar perché non riuscivo a capirla; la relazionalità radicale è qualcosa di eternamente sfuggente per chi è abituato alle ontologie classiche (monismo e dualismo). Più andavo avanti, più mi sembrava strana, avevo la sensazione che qualcosa rimanesse nell’ombra. A un certo punto, finalmente, mi parve tutto chiaro, e pensai: bene, questa metafisica funziona; purtroppo, però, non è compatibile con la scienza moderna. Allora iniziai ad approfondire il pensiero delle scienze moderne, in particolare la fisica, rendendomi conto che mi sbagliavo, e che Panikkar aveva ragione: cosmoteandrismo e scienze moderne non solo sono compatibili, ma mostrano anche una sorprendente affinità.
Il mito, limite inferiore per il pensiero, può essere descritto come lo sfondo di credenze che ciascuno possiede e del quale non ci si può liberare. Per certi versi ricorda la definizione di «paradigma» proposta da Thomas Kuhn nel suo La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Che tipo di dialogo si instaura tra Panikkar e i critici del metodo scientifico quali, appunto, Kuhn, Feyerabend, Lakatos e Hanson?
Nel libro accenno alla differenza tra mito (come orizzonte generale del pensiero del quale è impossibile fare a meno) e teoria scientifica (che mantiene una pretesa di oggettività, universalità e unicità). La cosa sorprendente è che Panikkar è in accordo non tanto con i filosofi della scienza (e della critica più tagliente, come quelli citati), bensì con i più ortodossi tra gli stessi scienziati: a testimonianza del fatto che la sintonia non è né occasionale né di superficie, bensì profonda e generale. Non è in gioco solo l’evoluzione della scienza (il problema di Kuhn) ma tutta l’epistemologia scientifica, dalla “cosa in sé” all’oggettività, fino a rendere possibili visioni comuni del mondo nelle quali “la materia è viva” e “la realtà è libera”. La prospettiva prende una forma inedita e, d’improvviso, cose apparentemente di nicchia come l’ecologia profonda diventano perfino ovvie. Agli occhi della stessa scienza.
Secondo London e Bauer, Wigner e in parte von Neumann, il collasso della funzione d’onda è causato dalla coscienza dello sperimentatore che interferisce nella misurazione quantistica. Qual’è il ruolo che Panikkar affida alla coscienza nel determinare la realtà che la circonda?
Panikkar non è mai entrato nel merito di dispute interne al mondo scientifico (non ha mai preso le parti, ad esempio, del riduzionismo o dell’emergentismo). Pur mostrando una evidente simpatia per l’interpretazione di Copenaghen, non ha mai inteso criticare (né tanto meno confutare) questo o quel fisico. Gli era sufficiente (e spero di essermi attenuto allo stesso indirizzo) mostrare la compatibilità tra la filosofia cosmoteandrica e l’idea fisica di quella ben nutrita parte del mondo scientifico (cui non mancano nomi tra i più grandi, da Heisenberg a Feynman, da Bell a Bohr) che ha saputo riflettere intorno ai fondamenti metafisici della propria disciplina in maniera critica e radicale. Su questa linea, Panikkar non ha mai parlato in particolare del ruolo della coscienza nella determinazione della realtà (il problema del gatto di Schrödinger continua ad arrovellare e a dividere i fisici); ma, tenendosi su un piano rigorosamente filosofico, pur attingendo alle scienze, ha spiegato che il pensiero fa parte della realtà tutta intera (la quale mostra tre “dimensioni”: idea a fondamento del cosmoteandrismo). Sarebbe complicato spiegare in poche parole in che modo sia possibile che “il pensiero modifichi il pensato”: spero mi si perdonerà se per questo rimando al libro ancora una volta.
L’intenzione fa parte dell’atto, modifica l’atto. Ecco perché la scienza dovrebbe puntare gli occhi, oltre che sui mezzi e quindi sulla meccanica, anche sul fine delle azioni. Ne danno prova, tra l’altro, le ultime scoperte fatte in campo neuroscientifico. In che modo la scienza potrebbe riformulare il proprio metodo, dandosi nuovi obiettivi per il futuro?
Di fronte a queste questioni (certo non trascurabili) bisogna star sempre attenti a non oltrepassare il limite: nessuno può dire (né tanto meno imporre) alla scienza metodi, morali, fini eteronomi. Ma un dialogo fruttuoso tra scienza e filosofia non può che far bene ad entrambe. Detto questo, la scienza potrebbe far suo il monito di Periandro di Corinto ad aver “cura del tutto” (dell’uomo, degli animali, dell’ambiente), piuttosto che privilegiare il benessere di una parte a scapito delle altre; sarebbe la fine degli esperimenti crudeli, della scienza bellica, e della pretesa dell’uomo di fondare se stesso tramite la propria conoscenza scientifica (esemplificata nella ricerca ossessiva dei primi istanti di vita dell’universo). Non si vive di sola scienza. In generale, il legame cosmoteandrico fra pensiero e atto invita a rivedere il nostro punto di vista scientifico sulla realtà (come oggettiva, morta, ecc.), superando tanti dualismi che si mostrano ogni giorno meno sostenibili. Ma questa, ripeto, è una conclusione alla quale si deve poter giungere insieme.
La Terra, partecipe della realtà cosmoteandrica, ha una coscienza. Quale contributo offre Panikkar allo sviluppo del pensiero ecologico contemporaneo? Quali orizzonti dischiude l’ecosofia da lui prospettata?
Credo di aver in parte già risposto in precedenza. Ma il punto fondamentale è che il grande contributo di Panikkar è proprio il superamento di ogni separazione all’interno della realtà: l’ambiente non va considerato come una cosa a parte di cui aver cura (o da sfruttare in maniera “sostenibile”), ma come una parte di noi stessi. Non possiamo sopravvivere senza aver cura dell’ambiente, certo; ma, ancora prima, noi letteralmente non siamo nulla senza l’ambiente nel quale nasciamo e viviamo. Appena nati, “veniamo al mondo”: poi ben presto ce ne dimentichiamo. Infine, come noi siamo immersi in una dimensione ambientale/materiale, anche l’ambiente vive nella dimensione del pensiero (o della coscienza): ciò non significa che alberi e pietre abbiano una propria consapevolezza o autocoscienza, ma solo che partecipano dell’unica e integrata realtà cosmoteandrica con la loro pensabilità. Einstein ha detto che il vero grande mistero è che l’universo sia comprensibile. Potremmo dire con una battuta che Panikkar ha svelato il mistero: l’universo è comprensibile perché non è qualcosa d’altro che stia di fronte alla ragione scientifica umana; esso partecipa della stessa realtà, unica, in cui la materia e il pensiero vivono insieme, distinte ma non separate.
Nell’ambito della prospettiva teofisica sarebbe necessario che sia la teologia sia la scienza si svestissero della propria oggettività e, soprattutto, della convinzione di possedere la verità tutta intera. Mentre la scienza ammette volentieri i propri limiti, la teologia difficilmente cede il passo sul possesso della verità. Quale delle due discipline ritiene più disponibile verso l’altra?
Dovremmo rifuggire dalla tentazione di giudicare altre discipline (ad esempio, scienza e teologia) dal nostro punto di vista filosofico (che si presupporrebbe più alto, ma non lo è). Intanto vorrei dire che non mi sembra affatto di ravvisare nella scienza tutta questa disponibilità nell’ammissione dei propri limiti: il celebre fisico Stephen Hawking continua a scrivere che scienza e religione sono in guerra (e che la scienza vincerà); in più, secondo lui, la scienza avrebbe finalmente messo in soffitta la filosofia; in molti continuano a sostenere che la scienza non ha ancora spiegato tutto, ma che quanto prima lo farà. Siamo ancora lontani dall’amare e volere i nostri limiti (in questo, è vero, la filosofia è forse un po’ più avanti degli altri); ma l’equivoco è che pensiamo ancora in termini di contrapposizione, per cui il guadagno di qualcuno corrisponde sempre a una perdita per qualcun altro (in questo, la mentalità capitalistica imperante non ci è d’aiuto). In realtà, un cammino teoretico fatto insieme dalla scienza, dalla teologia e dalla filosofia, potrebbe recare vantaggio a tutte e tre. È qui che la teofisica vorrebbe arrivare, come sorta di coronamento della filosofia dialogica che Panikkar ha portato avanti per tutta la vita.
Fino a che punto è possibile parlare di consonanza tra l’immagine del mondo offerta dalla filosofia di Raimon Panikkar e quella della scienza occidentale? Penso soprattutto alla meccanica quantistica: quanta parte di questa consonanza dipende da ciò che abbiamo recepito a livello di una «non sempre corretta» divulgazione scientifica?
Ogni nuova teoria scientifica riceve dure opposizioni (spesso basate su enormi fraintendimenti) da parte degli scienziati; è celebre poi la battuta di Feynman sul fatto che “nessuno capisce la meccanica quantistica”. Per dire che gli scienziati sono i primi a scontrarsi con l’intrinseca difficoltà della scoperta scientifica; figurarsi quando la scoperta viene esportata (spesso maldestramente) tramite la divulgazione ai non addetti ai lavori. Io credo di aver individuato una consonanza tra la filosofia di Panikkar e l’idea della realtà della scienza moderna; per farlo mi sono basato non sui filosofi della scienza (che interpretano e divulgano a posteriori il dato scientifico) ma sulla filosofia degli scienziati, che conoscono di prima mano ciò di cui stanno parlando (ciò va detto senza sminuire in alcun modo la filosofia della scienza; si è trattato, appunto, di una scelta). Ho sentito degli scienziati affermare che il dualismo cartesiano non è più sostenibile in fisica; che il riduzionismo è sbagliato; che la materia è libera ecc. Mi sono limitato a organizzare questo materiale e a riportarlo accanto al pensiero del filosofo, per metterne in risalto la sintonia. È evidente che ciò non mi immunizza dal rischio del fraintendimento; e poiché Panikkar era solito dire che non c’è migliore interpretazione dell’autointerpretazione, la mia massima aspirazione sarebbe che un fisico leggesse questo libro e mi dicesse: “è interessante. Parliamone”. Il dialogo inizierebbe lì.
(«Centro Interculturale Raimon Panikkar Italia», 29 settembre 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano