giovedì 1 settembre 2011
Abu l-’Ala al-Ma’arri, L'Epistola del perdono, ed. Einaudi, 2011
«Ci sono opere che sono famose per il motivo sbagliato. L’Epistola del perdono, capolavoro di Abu l-’Ala al-Ma’arri, è una di queste. La sua fama in Occidente è legata al fatto che avrebbe ispirato la Commedia dantesca, una supposizione vecchia quasi cent’anni e rivelatasi nel frattempo priva di fondamento». Così Martino Diez introduce la prima traduzione italiana dell’Epistola del perdono, classico arabo dell’XI secolo, sgombrando subito il campo dall’equivoco più celebre circa l’opera: essa - ancorché scritta ben due secoli prima dell’opera di Dante - non risulta in alcun modo ispiratrice di quest’ultima. Il motivo dell’interesse per questa lettura oggi va ricercato altrove.
Innanzitutto, si tratta di un testo satirico. Il bersaglio della satira è il poeta Ibn al-Qarih, contemporaneo di al-Ma’arri, una volta ricco e in vista alla corte di un potente vizir, poi caduto in disgrazia e costretto a errare. Egli si rivolse ad al-Ma’arri con una lunga lettera in prosa rimata, strapiena di elogi eccessivi volti a ingraziarsi il collega per chiedergli un sostegno economico nel momento difficile; in risposta al-Ma’arri scrisse questa Epistola, nella quale immagina un viaggio di Qarih nell’aldilà islamico, lungo il quale - tra le altre cose - incontra e dialoga con gli intellettuali del passato. Infarcita di lodi ancor più eccessive (con l’evidente intento del dileggio, e fingendo deliberatamente di non aver compreso la richiesta d’aiuto), l’Epistola tratteggia il poeta come un erudito pedante il quale, incapace di godersi le gioie del Paradiso, non fa che infastidire tutti quelli che incontra ponendo problemi tanto complicati quanto irrilevanti (con il rischio, sovente, di scatenare la rissa; per inciso, le lunghe digressioni sulla morfologia delle parole sono veramente gustose, e ricordano un po’ le elucubrazioni ridicolmente ossessive di certi personaggi di Nabokov).
Ma al di là della questione personale, l’opera prende di mira anche la poesia panegirica classica, molto in voga nella tradizione araba, e l’ipocrisia insita nella prassi d’incensare i mecenati oltre ogni verosimiglianza pur di strappare protezione e compensi. C’è poi una terza e probabilmente più importante tematica, quella del perdono divino, che in al-Ma’arri si mostra più grande di quanto riescano a immaginare i teologi: nel Paradiso si ritrovano infatti molti poeti pagani e cristiani (vissuti prima dell’avvento dell’Islam), mentre non di rado i personaggi musulmani sono dipinti come non troppo meritevoli.
L’opera si presenta dunque stratificata e complessa; non è escluso che l’autore abbia nutrito in essa l’ambizione di una più sottile critica delle pittoresche visioni popolari dell’aldilà: «benché il tema del perdono e della necessità della conversione svolga un ruolo rilevante, farne la chiave esclusiva per la comprensione dell’Epistola espone al rischio di sottovalutare un ulteriore livello di lettura. Scorrendo il testo, non si può fare a meno di domandarsi se la satira di al-Maarri non prenda di mira anche (e forse soprattutto) le rappresentazioni popolari del Paradiso islamico». Ciò mostrerebbe, ancora secondo Diez, un al-Ma’arri critico delle dottrine religiose popolari, in accordo con il resto della sua produzione letteraria. Il volume è stampato in una pregevole edizione della collana Nuova Universale Einaudi, arricchito da una ampia bibliografia nonché da un imponente apparato di note relative al testo e ai personaggi dell’opera.
Abu l-’Ala al-Ma’arri, L’Epistola del perdono, ed. Einaudi, 2011, pp. 210, euro 26. A cura di Martino Diez.
(«Pagina3», 1 settembre 2011)
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