Non guardo la televisione. Essendo molto distratto, preferisco leggere. Ma non è vero che la TV sia insulsa. Io la trovo molto pregnante. In almeno un paio d’occasioni ho trovato molto interessante quanto vi si diceva. Voglio mettervene a parte. E allora cominciamo a raccontare questa storia: era una calda sera di metà aprile...
...e il TG5 sparava un primo piano di Formigoni sorridente intento a dire che lui non ci pensa nemmeno a dimettersi - di fronte al fatto che la magistratura abbia appena finito di accertare che la sua candidatura è stata presentata tramite firme false - “spiegando” che
il popolo lo ha votato e che “l’Italia è una democrazia fondata sul consenso popolare, non sulla carta bollata”. Ora, io voglio sorvolare su tutto (ad esempio, sull’esigenza del rispetto delle regole anche quando ci sembrano stupide e perfino ingiuste), per concentrarmi su una notizia che ha avuto poca eco sulla stampa: il 27 aprile scorso 12 presunti affiliati al clan mafioso Parisi di Japigia (Bari), accusati di associazione per delinquere finalizzata a usura, estorsione, riciclaggio ed esercizio abusivo del credito, verranno [scrivo il 26 aprile] rimessi in libertà per scadenza dei termini di custodia cautelare preventiva, a causa di un mero errore materiale nella notifica del 415 bis, commesso dal pm antimafia che ha coordinato le indagini, Elisabetta Pugliese.
Trovo la tv molto istruttiva. Ogni volta che qualcuno la accende, vado in un’altra stanza a leggere un libro.
Groucho Marx
Poiché si tratta di un episodio gravissimo, causato da nient’altro che da una “carta bollata”, adesso Formigoni ci fa il piacere di andare al Tribunale di Bari a insistere affinché i 12 mafiosi vengano giustamente rimessi dentro, in quanto l’Italia è il paese della sostanza, non della forma. Vogliamo che si arrabbi. Vogliamo che si adoperi, in ogni modo. Vogliamo insomma che faccia carte false per ottenerlo (è un modo di dire; non vorremmo che ci prendesse il gusto e l’abitudine).
Ma non finisce qui. Qualche giorno dopo ho sentito Franco Bechis, vicedirettore di «Libero», dire a OttoEMezzo - c’erano con lui Lilli Gruber e Concita De Gregorio - che Berlusconi è stato costretto a fare delle leggi ad personam perché oggetto di una persecuzione giudiziaria ad personam. Proprio così. Non ha negato il fatto che Berlusconi abbia piegato il Parlamento della Repubblica Italiana alle proprie esigenze; né ha sostenuto che Berlusconi sia entrato in politica per il bene del Paese, ecc. Insomma, invece di dire quello che dice sempre la destra berlusconiana, si è messo a dire quello che ha sempre detto la sinistra, cioè che Berlusconi è dovuto andare in politica per evitare di andare in galera (cosa che lo stesso Berlusconi ha detto in più di un’occasione sia a Biagi sia a Montanelli). E tuttavia lo ha fatto avallando appunto lo schema berlusconiano, che si fonda su un capovolgimento della realtà, cioè sull’inversione delle cause e degli effetti: per poter giustificare i propri attacchi, li si spaccia per una difesa; per farlo, in assenza di un “nemico reale”, occorre fabbricarlo ad arte - nel caso in esame, la magistratura comunista. Classica retorica tipica delle politiche di stampo totalitario (nel caso di Stalin, il nemico era il capitalismo industriale; nel caso di Hitler, la finanza ebraica).
A uno così hai voglia a dire che non c’è nessun complotto giudiziario: il totalitarismo trova sempre un modo per dimostrare nei fatti che ha ragione. Quando Stalin diceva che la borghesia era una classe in via di estinzione, stava affermando indirettamente lo sterminio dei kulaki operato dalla sua polizia. Il finale del Caimano di Moretti non è né un’esagerazione artistica né qualcosa che succede solo alle dittature e nemmeno qualcosa d’altri tempi: è invece lo sbocco necessario (siamo ottimisti: uno degli sbocchi probabili) dei regimi che si fondano sulla menzogna e che mantengono il loro potere tanto a lungo da rendere quella menzogna insostenibile. Ma forse non è giunta ancora l’ora di preoccuparci. Possiamo continuare a stare tranquilli. L’ha detto anche la TV.
(«Il Caffè», 29 aprile 2011)