mercoledì 6 aprile 2011
Scuola d'Italia, scuole del mondo
Tullio De Mauro (nella Prefazione a T. De Mauro e D. Ianes, a cura di, Giorni di scuola. Pagine di diario di chi ci crede ancora, ed. Erickson, 2011) racconta una storia. La storia di un Paese che nel primo Novecento era popolato da analafabeti, che nel 1951 aveva un indice medio di 3 anni di scuola per abitante (e ciò lo collocava tra i Paesi sottosviluppati), ma che oggi, grazie alla capacità e alla caparbietà degli insegnanti (sempre in anticipo sulle direttive incerte quando non contraddittorie della classe dirigente) si colloca a pieno titolo fra i Paesi meglio scolarizzati al mondo. Un risultato che è stato possibile conseguire perché non ci si è rassegnati negli anni alle difficoltà di mandare avanti l’istituzione scolastica, con pochi (e sempre meno) mezzi, ma dalle alte pretese: quella di una scuola
aperta a tutti, fucina e mensa del sapere, lontano dalle tentazioni di un’economia e di una politica interessate a standardizzare la formazione, piuttosto che a ramificarla. I curatori articolano questo discorso a partire dai tanti racconti di insegnanti italiani che oggi operano nella nostra scuola e che nella scuola, appunto, “ci credono ancora”.
Ritratto approfondito da Franco Frabboni nel suo Povera ma bella. La scuola fabbrica di futuro (ed. Erickson, 2011): la scuola è povera perché vittima di una deliberata strategia di impoverimento operata dell’attuale governo, interessato a foraggiare la scuola privata (più facilmente manipolabile) attraverso tattiche di distruzione, svilimento e denigrazione della scuola pubblica. L’autore - professore emerito di Pedagogia all’Università di Bologna - redige la “cartella clinica” di questa scuola dal precario stato di salute: ne vien fuori l’immagine di un’istruzione schiacciata nella morsa del mercato e del mediatico, ma che non intende rinunciare (nonostante la controriforma Gelmini) a mettere al centro della pedagogia e della didattica i giovani discenti e le loro esigenza di critica, pluralismo, creatività. Anche se povera, è una scuola bella.
Estende l’orizzonte della riflessione oltre i confini nazionali il libro di Miantao Sun, docente dell’Università cinese di Shenyang insignito di prestigiosi riconoscimenti internazionali, dal titolo Educazione e scuola in Cina (ed. Erickson, 2011). Che pone il lettore italiano di fronte alla situazione dell’istruzione scolastica in Cina (dal punto di vista sia culturale sia istituzionale), al di là delle semplificazioni che riducono la Cina a nient’altro che una potenza militare, economica e politica di spicco. La scuola cinese riconosce l’esigenza di avvicinarsi alla cultura occidentale, a partire dall’alfabeto: e qui ci si imbatte nel primo grande scoglio, perché per i cinesi gli ideogrammi non sono solo un modo di scrivere diverso dal nostro, ma un modo di pensare basato su una costruzione logica e su una visione del mondo radicalmente differenti. L’avvicinamento dunque non può che essere graduale, ma - soprattutto - non può implicare un abbandono della tradizione, bensì un ampliamento dell’orizzonte ermeneutico e gnoseologico. Lezione - che l’autore rende accessibile a tutti con una narrazione di grande godibilità - che vale almeno altrettanto per l’Occidente, il quale a sua volta ha tanto da apprendere da una cultura che non riduce il pensiero alla ragione calcolante, ma è in grado di affrontare la conoscenza integrando la razionalità con tutto ciò che la trascende. Un libro, unitamente agli altri due, per rivitalizzare il dialogo interculturale e la speranza di una scuola libera e plurale.
(«Pagina3», 6 aprile 2011)
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