Gli ultimi |
Ma non sempre. A volte capita che qualcuno ne parli, e allora la parola sembra un urlo. È il caso del racconto di Pino Petruzzelli nel suo recente Gli ultimi (ed. Chiarelettere, 2011, con la Prefazione di don Gallo), dove sono proprio gli ultimi a parlare.
I poveri, gli emarginati, gli esclusi, gli oppressi, gli sfruttati. Ma non solo loro. Perché ultimi sono anche quelli che decidono di “perdere la gara” per restare indietro ad aiutare quelli che non ce la fanno, i deboli, gli svantaggiati, quelli che cadono spesso (e magari non per colpa loro). Uomini che avrebbero potuto gareggiare, e che invece hanno scelto in partenza di perdere perché altri uomini avevano bisogno di loro. Sono Antonio, il contadino in pensione di Napoli che aiuta i rom di Ponticelli a sopravvivere nei campi in cui i napoletani vanno a sversare la spazzatura; o Petraq, docente di fisica all’Università albanese di Valona, che rischia la vita lottando contro la criminalità organizzata. Petruzzelli ne ha incontrati dodici, raccogliendone di persona lo sguardo e l’esperienza. Uomini senza potere, senza mezzi, la cui unica forza è la testimonianza. E il frutto che portano: nell’opera che svolgono a favore di quelli che gli stanno intorno, la cui vita riescono a rendere meno infelice.
Gli ultimi sono l’ultima barriera di un’umanità che resiste contro la barbarie delle mode, dei pensieri e degli stili di vita di quello sciame inquieto di consumatori che popola le nostre strade.
P. Petruzzelli, Gli ultimi, ed. Chiarelettere
Ma Gli ultimi non è un libro di pietà o di teologia politica. È una galleria nella quale si assiste all’emergere improvviso di storie iridescenti e insospettabili - come in una specie di Mille e una notte del terzo millennio. Come quella del beduino che vive ancor oggi da nomade, sotto a una tenda con le capre e la famiglia, il quale racconta - immerso nel profumo del caffè tostato a legna d’arancio - delle notti stellate nel deserto israeliano e della implacabile legge tradizionale della comunità.
Questo di Petruzzelli è un libro intenso ma leggero, che strizzando l’occhio alla sociologia di Bauman ci fa riflettere su ciò che potremmo fare per il prossimo sofferente, che spesso ci è più vicino di quanto immaginiamo. Ma la sua forza più grande sta nel ricordarci che la nostra vita potrebbe essere molto più ampia, ricca, libera e variopinta di quello che crediamo quando spegniamo la TV.
(«Il Caffè», 8 aprile 2011)