mercoledì 9 marzo 2011

Una questione di dignità. Intervista ad Adnane Mokrani sullo stato della rivolta popolare in Nordafrica


ADNANE MOKRANI, nato in Tunisia, ha studiato all'università di Al Zajtuna di Tunisi e all'Angelicum, l'istituto d'insegnamento e ricerca dell'Ordine dei Domenicani a Roma. Giornalista dell'AdnKronos e docente di Studi Islamici presso l'Università Gregoriana. Ha fatto parte del Comitato scientifico presso il Ministero dell'Interno (ministro Giuliano Amato) che ha elaborato una Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione.

Egitto, Tunisia, Algeria: cosa sta succedendo?
Sta avvenendo un cambiamento epocale che segnerà per sempre la storia di questi popoli. Un risveglio della coscienza popolare, una grande sete di democrazia, libertà e diritti umani, espressa in una unità nazionale che ha superato tutte le divisioni precedenti; una gran voglia di essere cittadini veri, presenti, attivi, che rifiutano
le dittature, la manipolazione mediatica, il degrado sociale, l’emarginazione. Un cambiamento molto promettente e un grande segno di speranza.
Era in qualche modo prevedibile?
Era difficile prevederlo, ma non ci si è arrivati d’improvviso. Dietro questo eventi c’è un accumularsi di oppressione e di umiliazioni che ha trovato il momento giusto per esprimersi. In modo pacifico e civile.
Nonostante ci siano stati scontri di piazza anche molto violenti.
Gli scontri di ieri [l’intervista è del 4 febbraio 2011, N.d.R.] sono organizzati dal governo egiziano, che utilizza alcune milizie di poliziotti insieme a bande di mercenari assoldati a questo scopo, che non rappresentano né le intenzioni né i modi della rivolta popolare, che è pacifica. Due giorni fa abbiamo visto circa 8 milioni di egiziani uscire per le strade, oggi lo stesso. C’è una volontà chiara e forte da parte della gente; gli altri sono provocatori che cercano di impedire le manifestazioni. La guerra civile è un’invenzione della polizia e dei servizi segreti. Questa rivolta nasce da un desiderio pacifico di libertà.
Desiderio di libertà. Ma non c’è forse anche la fame?
Sicuramente c’è anche una dimensione economica, più forte in Egitto - dove il 40% della popolazione è sotto la soglia di povertà. Ma non è corretto ridurre a quest’unico fattore tutta la rivolta. C’è una grande sete di dignità. Potrei riassumere queste rivoluzioni in 3 parole: dignità, fiducia e speranza. Ma soprattutto dignità: ritengo sia la cosa più importante e presente, perché non credo che ci sia una mancanza di cibo così grave da spingere a una rivolta di queste proporzioni.
Possiamo aggiungere anche un fattore di scontro religioso?
No, anzi: osservo che i valori che animano la protesta sono universali, si parla di diritti naturali di tutti i popoli, al di là delle religioni. Spiccano rivendicazioni circa l’unità, la libertà e la democrazia, e non valori afferenti a delle ideologie. Esiste in queste proteste una solidarietà trasversale alle religioni. Proprio ieri ho visto in internet una bellissima foto di giovani copti che creavano un cordone per proteggere i musulmani durante la preghiera. Secondo me questa rivoluzione egiziana - che usa come simbolo solo la bandiera nazionale egizia - potrebbe essere addirittura il rimedio alle divisioni tra musulmani e cristiani.
Quindi potremmo addirittura trarre una lezione di pacifismo e di dialogo da queste rivolte nordafricane.
C’è una gran voglia di pace e di dialogo. I manifestanti non erano armati, non hanno risposto in maniera violenta alle provocazioni dei militari, ed erano pronti a morire anche senza usare le armi. Abbiamo già visto qualcosa di molto simile 2 anni fa in Iran con il cosiddetto movimento dell’“onda verde”, in protesta contro Ahmadinejad.
Quali prospettive avevano i giovani ieri, e quali possono averne oggi?
Fino a questo momento i giovani non trovavano lavoro ed erano senza speranza. Ma adesso la speranza c’è. Il paradosso della lotta europea all’immigrazione clandestina è l’alleanza con dittatori come Gheddafi al fine di impedire l’arrivo dei clandestini. Si tratta di un’operazione controproducente, destinata ad ottenere l’effetto contrario di quello desiderato, perché finché ci saranno i dittatori ci sarà sempre l’immigrazione clandestina. La vera lotta all’immigrazione la si combatte creando il futuro in questi Paesi, cominciando a rimuovere questi dittatori, che chiudono ogni orizzonte ai giovani e li costringono alla disperazione e alla fuga, rischiando la vita per attraversare il Mediterraneo. Creare un clima democratico e libero in questi Paesi, ecco la vera soluzione: va da sé che questi giovani “aspiranti clandestini” non hanno nessun interesse a fuggire in un Paese straniero se possono trovare delle opportunità di sviluppo e di crescita a casa loro. Nessuno nel mondo sceglie di cambiare Paese, se può trovare a casa sua quello che cerca in termini di dignità, di affetto, di sviluppo umano personale e sociale. È una cosa così ovvia, eppure così difficile da afferrare.
La democrazia è dunque il primo passo verso una svolta anche economica?
La dittatura è il monopolio della ricchezza ed è un sistema in cui le risorse vengono distribuite iniquamente, a vantaggio di pochissimi nelle cui mani si concentrano tutte le risorse e tutto il potere. C’è una grande distanza, in questi regimi, sempre più grande, tra i ricchissimi e i poverissimi. La distribuzione è ingiusta: questo genera rabbia e frustrazione.
Passando dal piano locale a quello internazionale: potrebbero esserci conseguenze in politica estera?
Sicuramente. Percorrendo questa strada si arriverà ad un nuovo mondo arabo, in cui tutto sarà diverso: le alleanze, i rapporti diplomatici. Il sistema finora vigente era basato su un patto scellerato fra corruttori e corrotti: che è sempre la via più breve in questi casi, perché è fin troppo facile corrompere un dittatore - che non attende altro - al fine di ottenere facilitazioni su progetti economici o alleanze strategiche. Da ora in poi, trattare con un Parlamento libero sarà più difficile, ma più solido, perché più stabile e più legittimo. La fine della corruzione recherà dei rapporti internazionali più equi, equilibrati ed umani.
E ad esempio un Paese come Israele, che ha sempre avuto nell’Egitto un bastione contro l’avanzata del fondamentalismo islamico, dovrà rivalutare la sua posizione internazionale e rimodulare il processo di pace in Palestina?
Va da sé. Eppure, come dicevo prima, l’idea che i dittatori siano una garanzia per la pace è solo un luogo comune cui ci si è abituati: la realtà è che la dittatura non crea altro che distruzione e umiliazione. Cioè nient’altro che instabilità.
C’è il rischio di speculazioni finanziarie o di ripercussioni economiche a più lunga gittata?
in questo momento di incertezza all’orizzonte è chiaro che la finanza vada un po’ in subbuglio (e se ne approfitti). Ma appena le cose cominceranno a tornare pian piano alla normalità, anche l’economia trarrà giovamento dal mutato panorama politico.
Lei nutre insomma una visione molto positiva di questi accadimenti. C’è per contro qualcosa di cui noi europei dovremmo preoccuparci?
Non vedo perché gli europei dovrebbero temere la democrazia in nordafrica. Purtroppo aleggia sempre - sovente a sproposito - la paura della minaccia fondamentalista. Quello che ho osservato è che il mondo arabo islamico ha vissuto 3 diversi “stadi” negli ultimi cento anni: quello del nazionalismo laico (per esempio quello di Ataturk in Turchia), incentrato sulla politica di dittatori laici nazionalisti; quello che lo ha seguito, cioè il fondamentalismo religioso (avutosi in seguito al fallimento dello spazio politico post-coloniale) degli anni ‘70 e ‘80. Siamo ora al terzo stadio: in cui assistiamo alla nascita di una nuova epoca: quella della democrazia e della libertà. Non ne parlo come di un auspicio o di un’illusione: mi limito a riferire i segni che osservo. Anche i fondamentalisti dovranno adattarsi a questa nuova fase della storia: perché essere islamista o parlare nel nome della religione non è più una garanzia di giustizia e di uguaglianza. Quello che garantisce la libertà e la giustizia oggi è il controllo dei governi da parte del popolo, i meccanismi di controllo che tutelano dall’abuso di potere. Non c’è altra garanzia. Questa nuova consapevolezza democratica è la prerogativa di questa nuova fase della storia. Io spero che l’Occidente sappia accompagnare nella maniera migliore questo cambiamento epocale.
(«l'Altrapagina», febbraio 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano