lunedì 28 febbraio 2011

Il soggetto vuoto


Anoressia, bulimia, depressione, attacchi di panico: malattie psichiche, certo. Dalle quali si è affetti più o meno incolpevolmente, sì. Ma anche qualcosa di tipico della nostra epoca, della nostra organizzazione sociale, dei nostri modelli di riferimento. Del nostro modo di vivere e di intendere la vita.
Se ne parla nel recentissimo Il soggetto vuoto (a cura di M. Recalcati, ed. Erickson, 2011). È vero, l’anoressia non l’abbiamo inventata noi. Ma è pur vero che
la malattia si è diffusa proporzionalmente alla distribuzione della ricchezza occidentale. Così come, se da un lato è riduttivo affermare che tante donne possano ischeletrirsi soltanto per emulazione delle modelle, è innegabile che vi sia
una dialettica tra anoressia e discorso sociale ed è in questo che l’anoressia è un sintomo della moda, un sintomo attuale.

Alcune malattie psichiche epidemiche sono risposte di massa al vuoto di senso della società dei consumi

Non si spiega altrimenti l’“epidemia” di anoressia (ma anche di bulimia e di tanti altri disturbi psichici). C’è una corrispondenza tra queste patologie e il modo in cui le persone concepiscono oggi il loro essere nella società. Il meccanismo (illustrato con grande chiarezza nel contributo introduttivo di Recalcati) è il seguente: la società isola le persone fino a renderle individui, incentivando il godimento isolato e a oltranza; così, da un lato, il godimento diventa sempre più individuale, dall’altro diventa sempre più meccanico e ripetitivo, sganciandosi dal desiderio dell’eccezionale per sprofondare nell’alveo del semplice superamento del limite (dove l’eccezionale si svilisce nell’eccessivo - e termina nell’overdose da stupefacenti, emblema dell’intero processo). In questo contesto nulla più è speciale, nulla più val la pena di essere inseguito, conquistato: tutto è qualunque, nulla più può meritare l’attenzione e il desiderio del soggetto. Il quale ultimo, privato del suo desiderio, diventa “vuoto”.
Questo soggetto ammalato - fondamentalmente abulico anche quando ostenta frenesia nel consumo - arriva in certi casi ad atomizzare talmente tanto il proprio godimento da circoscriverlo al proprio corpo, senza limiti, avvitandosi in una denutrizione sempre più feroce, o in una alimentazione insostenibile, o in una tossicomania sfrenata. E per di più letale: perché di tutte queste cose si può morire. Di fronte a una pretesa di godimento che ha superato i limiti dell’umana sostenibilità ed è diventata, appunto, insostenibile, bisogna prendere atto che questo modo di concepire la propria esistenza (cioè come null’altro che attitudine al consumo) si oppone da ultimo alla vita, attenta alla vita e il soggetto ne rimane schiavo.
Questo sistema economico aveva promesso la liberazione dalla povertà, dai pregiudizi, dal dovere: ma oggi che, almeno in Occidente, la povertà può dirsi alle spalle (e se ancora permane in Italia per 8 milioni di persone non è a causa dell’arretratezza industriale, bensì della distribuzione iniqua della ricchezza), l’economia consumistica si sta ritorcendo contro l’uomo, riducendo la favolosa aspirazione alla libertà alla misera facoltà di scegliere oggetti dagli scaffali di un supermercato. È tempo di tracciare un bilancio antropologico di questa nostra era di liberismo economico e di domandarci - senza il timore che la risposta possa essere negativa - se il progredire di questa economia ci stia rendendo davvero più felici.

(«Il Caffè», 25 febbraio 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano