Che «Pontifex» non sia il mio quotidiano preferito, l’ho già scritto. Ma l’eccesso di facinorosità che sta infuriando dentro e fuori dalla rete, fino a chiederne niente di meno che la chiusura, mi sembra fuori misura ed anche fuori luogo.
È vero. Quelli di Pontifex non fanno nulla per rendersi simpatici: si proclamano “eletti” detentori della retta dottrina cattolica, non usano eufemismi e sono soliti andar giù pesante sui loro bersagli: anch’io ho spesso additato passaggi notevoli di redattori e di alti prelati che a «Pontifex» affidano la loro fetta mediatica di pastorale (su Vendola, sul fascismo, sulla pedofilia, sulla religione, sulla teologia, sulla pace, sull’omosessualità). In più, il dialogo non è il loro forte: se in generale è difficile ragionare con chi sostiene di possedere la verità, in particolare è fastidioso e snervante avere a che fare con chi, quando è criticato, prende questo come un segno del proprio essere nel giusto (citando l’evangelico “sarete perseguitati a causa della giustizia”), mentre critica puntualmente l’altro sostenendo: “il demonio è all’opera in te; ciò che dici lo certifica”.
Ma, detto questo, non ci si dovrebbe poi ritrovare a fare ciò che si imputa agli altri: vada per l’ironia e per la critica costruttiva; si tolleri pure il disprezzo quando proprio non si riesce a trattenerlo; ma non si arrivi alle ingiurie a tutto campo e soprattutto non si arrivi al dossieraggio (alla cui tentazione ha ceduto il collega Mazzetta, che ha indagato sul privato di Carlo Di Pietro, webmaster di «Pontifex» e a quanto pare di altri siti italiani ed esteri). Non prendiamo l’abitudine ai “trattamenti Boffo”: il gusto, la consuetudine, l’assuefazione, potrebbero prendere il sopravvento. Forse una medesima opinione è più o meno valida a seconda della vita privata di chi la esprime? Ritengo che la domanda giusta da fare sia: se Carlo Di Pietro avesse avuto l’accortezza di usare uno pseudonimo in rete, le cose che dice sarebbe più o meno valide di come ci appaiono oggi? Ancora: se anche Di Pietro fosse un personaggio davvero viscido e incoerente, la critica al giornale dovrebbe essere la stessa: chi dissente dalle loro tesi lo fa indipendentemente da chi le enuncia. O forse, al variare della firma in calce, si potrebbe studiare di volta in volta il proprio accordo con esse?
Non si dovrebbe divenire intolleranti di fronte all’intolleranza. Quindi, finché non vengono violate delle leggi, non si dovrebbe cercare di impedire a nessuno di parlare: la critica va effettuata nel merito (confutazione), non a suon di botte (reali o virtuali). Se qualcuno volesse giudicare la validità di tutto ciò che scrivo o addirittura sono, in base al fatto che a volte telefono dall’ufficio... lo riterrei sostanzialmente ingiusto. Dalla discussione emergano il torto e la ragione (se ve ne sono), ma a nessuno si dica: tu non hai diritto di parola. Se no Mesiano è uno squilibrato perché porta calzini celesti, il direttore di «Avvenire» non può scrivere di decenza perché una volta ha patteggiato in tribunale. Perché facciamo così tanta fatica ad afferrarlo? La delegittimazione dell’avversario è una pratica totalitaria, non democratica. Delegittimando colui che scrive ci si ritrova a portare avanti proprio quello che si critica ai fondamentalisti: la rivendicazione del possesso in esclusiva della verità tutta intera (accompagnata dalla liquidazione delle opinioni altrui come errori tout court, circa cui non vi è più nulla da discutere). Credo che finché ci saranno due persone che dissentono su una questione, ci dovrà essere spazio per il dialogo. Questa è l’umanità: discutere sempre, con chiunque; e scontrarsi con le idee, non con le persone. Perché chiunque potrebbe aver la ragione dalla sua, magari una sola volta nella vita: e se «Pontifex» dicesse il vero, anche su una sola questione? Perché privarsi del suo contributo alla discussione? E soprattutto: a che titolo? Nessuno va messo a tacere. Per dirla con Voltaire: “non sono d’accordo con nessuna delle cose che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu possa continuare a dirle”. Ecco, io non simpatizzo né mi associo all’impresa di «Pontifex» (anzi, me ne dissocio apertamente) e spero di non dover trovarmi a pagare con la vita queste mie poche parole di oggi. Scherzo. Fortunatamente, io non sono Voltaire.
(«AgoraVox», 1 settembre 2010)
mercoledì 1 settembre 2010
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