martedì 6 luglio 2010
R. Panikkar, Concordia e armonia, ed. A. Mondadori, 2010
L'armonia come legge prima dell'Essere; l'armonia come meta ultima dell'umanità. Si potrebbe partire da qui per spiegare in poche parole la radice da cui trae nutrimento la filosofia che il pensatore catalano Raimon Panikkar ci offre oggi nel suo ultimo Concordia e armonia (ed. A. Mondadori, 2010). La pace è all'origine di tutto; al contempo è il fine di ogni cosa. Eppure, in quanto l'uomo è un essere libero e in grado di determinare se stesso, la pace non è qualcosa da subire, bensì da costruire; e con gran sforzo, per di più, preso atto che le cose nel mondo vanno tutt'altro che bene, come mostra il persistere della povertà, dell'ingiustizia, della guerra. Primo passo da fare per Panikkar, in direzione della pace, è costruire una trama di relazioni fra gli uomini, i popoli, le culture, le religioni, ove ci sia spazio per la reciproca
conoscenza, foriera di fiducia e di avvicinamento. Così si dà luogo a ciò senza di cui nessuna pace è immaginabile: la concordia.Da tale lucida presa di posizione prende le mosse questo libro di Panikkar, raccolta di 9 articoli a cura di Milena Carrara Pavan, in parte già pubblicati in italiano. Di particolare rilevanza, a partire dal titolo, appaiono i due contributi su "La pace politica come obiettivo religioso" e "L'ingiustizia nel mondo non ci lascia indifferenti". In quest'ultimo, in particolare, Panikkar parte da un assunto molto concreto: c'è al mondo una stragrande maggioranza di persone che vivono in condizioni di povertà, disagio o emarginazione, cui non rimane nessuna speranza; la restante minoranza (1 miliardo su 6), quella privilegiata, che non muore di fame e può sperare, è quella cui apparteniamo noi. Questa minoranza - in quanto tale (cioè nell'impossibilità di avvalersi del criterio utilitaristico del maggior bene per il maggior numero) nonché in quanto sedicente "cristiana" - non può mostrarsi indifferente a tanta ingiustizia: ha bisogno infatti di proclamare (anche se lo fa spesso ipocritamente), come singoli, come governi e come organi internazionali, che alla sorte dei suoi simili non è insensibile. Quella dei nostri giorni è infatti la più grande ingiustizia che la storia abbia conosciuto (cioè quella del nostro tempo: non c'è mai stata tanta gente che muore di fame, proprio oggi che c'è abbastanza cibo per tutti). Di fronte a ciò, Panikkar spiega che abbiamo bisogno di due "conversioni": lo smantellamento dell'ordine tecnico-economico imperante - sul piano politico - e il superamento del monismo e del dualismo - sul piano filosofico. Sullo sfondo, la "conversione del cuore", l'atteggiamento spirituale che ci fa sentire - al di là di ogni giustificazione ideologica, spiegazione razionale, appello all'emotività - che l'altro è in qualche modo realmente nostro fratello, sangue del nostro sangue, carne della nostra carne, e che il suo dolore è in certa misura anche il nostro.
Su questo piano, quello dello spirito, della religione, si gioca la partita più importante del millennio: quella della giustizia. Perché senza giustizia non può esserci pace, ma solo assenza di guerra (sempre instabile) e tolleranza (come disinteresse per l'"altro" da noi). "Consacrare le nostre vite all'affermazione della giustizia" è l'auspicio che il filosofo rivolge all'uomo contemporaneo, ben consapevole dell'altezza della sfida. La sensibilità di Panikkar è dunque ben lontana da una rassegnazione fatalistica come da un qualsiasi rinvio della questione all'aldilà (comunque lo si voglia intendere). La religione è per noi, oggi, su questa terra, e può condurci alla pace. Purché la vogliamo veramente.
(«il Recensore.com», 2 luglio 2010)
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