lunedì 26 luglio 2010
Invito al pensiero di Ivan Illich/9. Descolarizzare la società
Siamo abituati a pretendere tutto e subito. Ma soprattutto siamo abituati all'opulenza, in tutti i sensi, all'eccesso di possesso, che si tratti di beni, o di conoscenze, o di emozioni. Noi crediamo fermamente alla crescita infinita propinataci dall'economia (la quale tuttavia non spiega come sia possibile espandersi all'infinito a partire da risorse finite, mentre l'evidenza è quella che conosciamo tutti: anche il più grande dei palloncini, a forza di gonfiarlo, finisce per scoppiare). Ecco perché, quando sentiamo parlare di sobrietà, inevitabilmente pensiamo alla povertà (che non c'entrerebbe niente). Ecco perché, appena si pone un'obiezione al nucleare, rispondiamo d'istinto che "abbiamo bisogno di energia!". Ecco perché, infine, quando leggiamo che Illich propone di "descolarizzare la società", il pensiero corre subito all'ignoranza, all'oscurantismo, alla disinformazione.
Da un lato - direbbe forse lo stesso Illich - è questo l'effetto che ci fa la nostra "società dei servizi": siamo talmente abituati all'idea che per ogni nostra esigenza debba esserci un corrispondente servizio offerto da un certo ordine professionale, che all'idea del venir meno di uno di tali servizi rimaniamo confusi, smarriti, come di fronte a un regresso.
D'altro canto, e questo è il punto più importante e delicato - bisogna evitare di fraintendere la formula illichiana: descolarizzare la società non vuol dire abolire la scuola tout court, ma solo liberare la società dall'idea che nessuno possa concretamente e senza pregiudizio (anzi, traendone giovamento) farne a meno.
E invece a farne a meno qualcuno (non tutti) dovrebbe imparare. Perché, ad esempio, per inseguire i modelli educativi e professionali statunitensi, molti giovani messicani tentano di attraversare la frontiera (spesso a prezzo della vita). Con il risultato che, una volta negli Stati Uniti, i modelli scolastici - forgiati a misura di una società che non è la loro - inducono loro un atroce senso di inadeguatezza: perché sono pochissimi i messicani che possono diventare yankee quanto o più dei bianchi americani. Molti si arenano nelle difficoltà di conseguire (magari con ritardo o con minore profitto) un titolo di studio che dopo non riusciranno a mettere a frutto.
Non è una questione di razzismo, né di classismo: nessuno può considerarsi predestinato al successo professionale. Ma il punto è che l'idea di una istruzione universale è illusoria quanto quella babelica di una lingua universale. La scuola si radica nella cultura di un popolo: pretendere di versare negli uomini la conoscenza come attraverso un imbuto non fa altro che generare frustrazione in chi dovrebbe riceverla. E dà luogo - tramite il noto effetto della controproduttività che Illich ha illustrato in tanti ambiti diversi - all'esito opposto rispetto a quello desiderato: ragazzi che avrebbero potuto apprendere una professione magari nel loro paese, magari in una bottega, si ritrovano con un pezzo di carta inutilizzabile, perché conquistato comunque (nella grande maggioranza dei casi) meno brillantemente degli altri. Come si dice: senza né arte, né parte.
Il problema non dunque nell'idea di scuola, ma all'ampiezza che a tale idea si impone per obbligo di legge. Costruendo così il mito della irrinunciabilità dell'istruzione scolastica. Una scuola così concepita è automaticamente destinata all'oologazione degli studenti, incapace di valorizzare i talenti e le particolarità dei singoli. Dobbiamo imparare a liberarci dalla dittaura dell'istruzione. O, almeno, dovremo smettere di lamentarci quando non riusciamo a trovare un buon idraulico.
I. Illich, Descolarizzare la società, ed. Mimesis, 2010.
(«l'Altrapagina», luglio-agosto 2010)
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