lunedì 21 giugno 2010
La genetica e i suoi dogmi
L'ingegneria genetica si farà. Comunque. Anche direttamente sull'uomo. Ecco il presupposto fondamentale del Convegno che si è tenuto a San Leucio, presso la Facoltà Jean Monnet della SUN, l'11 giugno 2010, dal titolo "Evoluzione autodiretta e futuro dell'uomo", che ha visto la partecipazione tra gli altri dell'illustre biologo Edoardo Boncinelli.
È stato proprio Boncinelli ad introdurre il tema portante: secondo lo studioso, l'uomo metterà mano al suo stesso genoma nel giro dei prossimi vent'anni. Ciò nonostante la contraria dichiarazione internazionale di intenti del 1975, ancora valida. E le prime cose che l'uomo cercherà di ottenere saranno, con una certa ovvia prevedibilità, la longevità e la resistenza allo stress e alle malattie. Già oggi siamo a conoscenza di un gene in grado di allungare la vita media dei topi del 30% (non sembri poco: significherebbe conferire - a un uomo dall'aspettativa di vita di 80 anni - la possibilità di vivere oltre il secolo). Boncinelli è ottimista (nonostante
il rischio sempre in agguato che il potere si serva della conoscenza ai fini dell'asservimento dell'umanità, magari proprio con il suo stesso consenso - la grande tentazione delle democrazie mediatiche occidentali; l'argomento è stato approndito da Lorenzo D'Avack, docente dell'Università degli Studi Roma Tre).
Travolto dall'enfasi delle sue stesse previsioni, il biologo toscano - con la guasconeria dello scienziato razionalista che parla dall'alto degli esiti pratici della sua disciplina - si concede di dare del "picchiato" all'insigne filosofo tedesco Jurgen Habermas, colpevole a suo dire di aver affermato che l'ingegneria genetica non va applicata all'uomo. E continua: poiché al contrario questa cosa si farà e basta, è inutile stare a porsi oziose domande di opportunità; la cosa migliore è cominciare a domandarsi fin da subito qual è il modo migliore per pensarla, dal punto di vista filosofico, etico, politico.
Secondo Aldo Schiavone, docente dell'Istituto Italiano di Scienze Umane, saremmo di fronte alla terza grande rivoluzione dell'umanità: dopo quella agricola (7.500-3.000 anni fa) e quella industriale (150 anni fa), per la prima volta una specie del pianeta Terra è in grado di indirizzare il corso della propria evoluzione biologica, rendendola cioè non casuale. Poiché anche Schiavone ha pochi dubbi sul fatto che, prima o poi, le conoscenze dell'ingegneria genetica vengano applicate all'uomo, anch'egli consiglia di dedicarsi allo sviluppo di un pensiero filosofico adeguato alla nuova situazione. Un pensiero libero, per prima cosa, dal pregiudizio della "naturalità", di ciò che è così (è sempre stato e sempre sarà così, e perciò non va alterato) "per natura": Aristotele pensava che gli uomini si dividessero in liberi e schiavi per natura; parimenti, i teologi pellegrini in America ritenevano che gli indios fossero privi di anima, per natura. Oggi queste concezioni ci fanno inorridire, mostrandoci che "natura" è il nome che diamo ai nostri pregiudizi. L'invito a formulare un pensiero all'altezza delle esigenze di questo tempo non ambisce alla creazione di una ennesima ancilla scientiae, ma di un pensiero che al contrario possa bilanciare l'azione pervasiva della tecnica.
In conclusione, il bilancio di questa giornata di studi è amaro. Da un lato perché - al di là della competenza degli oratori e dell'interesse dell'argomento, innegabili - il fatto di dare per scontato che certe cose non solo verranno fatte comunque, ma che anzi tutto vada sempre fatto comunque, indipendentemente da qualsiasi considerazione, lascia disorientati: ci si ritrova di colpo di fronte a una scienza che - grande critica dei dogmi della religione - mostra il suo volto fatalista, incapace di regolare il corso da dare a se stessa e rassegnata a subire l'incessante avvento del futuro, buono o cattivo che sia.
Dall'altro, vedere tutto questo dispendio di energie (4 relatori, 3 moderatori, ecc.) a favore di un pubblico di 30 persone scarse non può non riempire di amarezza. Per il popolo incolto e disattento: anche, certo. Ma soprattutto per un'accademia che sembra indifferente all'esito delle sue stesse attività, insensibile all'evidenza dello svilimento della trasmissione del sapere in autocelebrazione. L'umanità, l'Italia, Caserta, temo che non saranno molto migliori dopo quest'evento. Una volta tanto, però, non è colpa del governo.
(«Il Caffè», 18 giugno 2010)
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