sabato 1 maggio 2010

L’economia come la vedo io/1

Se ho capito bene, il sistema economico nel quale viviamo, fondato sul libero mercato, oltre a quello di allocare le risorse scarse ha l’obiettivo di massimizzare la quantità di ricchezza esistente. Il valore della ricchezza è determinato su base nazionale dal PIL: il PIL in un determinato momento costituisce la ricchezza della nazione in quel momento. Più aumenta il PIL, più la nazione è ricca. L’accumulazione di ricchezza si consegue affidando al mercato, libero il più possibile da qualsiasi regolamentazione, ogni scambio. La concorrenza genera eccellenza; l’eccellenza induce il consumo; il consumo spinge la produzione; la produzione genera la crescita (che non è altro che l’aumento della ricchezza disponibile). In un ciclo virtuoso, infinito e – ciò che più va sottolineato – inarrestabile.

Al mondo oltre 2 miliardi di uomini sono malnutriti, eppure non abbiamo mai prodotto e sprecato tanto cibo.
Sarebbe questa, nel linguaggio della razionalità economica, l'allocazione ottimale delle risorse?

“È la somma che fa il totale”: ecco il motto di questa economia, che noi campani conosciamo probabilmente meglio di ogni altro al mondo. La cartina di tornasole di questo tipo di economia è soltanto la quantità di ricchezza accumulata. Se, ad esempio, per aumentare la ricchezza si deve licenziare, l’economia lo farà (e in certi casi anche con grande efficienza: cfr. il “ritratto” di Albert Dunlap su questo giornale, 11 settembre 2009). A nulla valgono le proteste, le sofferenze, gli alti-e-bassi delle singole persone: ciò che conta è la ricchezza (complessiva). Se il PIL italiano cresce voi siete più ricchi di prima, anche se avete perso il lavoro. Che ci crediate o no, per l’economia, non ha nessuna importanza. Tanto che il suo slogan è che questo sistema porterà sempre più ricchezza a tutti: bisogna solo saper aspettare.
Eppure sono secoli che aspettiamo (da quando la teoria economica ha cominciato a prendere piede). Immagino questa economia come una famiglia che dà tutto al primogenito sacrificando gli altri figli: invece di permettere un lavoro di bottega a tutti, ne dà uno prestigioso da alto dirigente al primo, che così facendo guadagna più di tutti gli altri (lasciati senza lavoro) messi insieme. Bene. Cioè: bene sarebbe se i soldi guadagnati venissero poi distribuiti equamente fra tutti i fratelli (cosa che nell’economia non avviene). E bene sarebbe se questo modo di fare non rendesse i fratelli minori dei sudditi, degli esclusi, dei mendicanti, le cui facoltà vengono mortificate dal mancato utilizzo (cosa che in economia avviene sistematicamente, nel caso degli esclusi, dei sottoccupati, dei precari, dei disoccupati).
Certo. La mia è una versione ipersemplificata. Ma ritengo non lontana dal vero, soprattutto se la si legge con la semplicità (forse ingenuità) ma anche con l’urgenza di chi ne subisce le conseguenze. Come i fratelli del continente africano, il cui PIL è pari all'1% di quello mondiale e non è affatto in crescita, 280 milioni dei quali vivono - secondo una stima della Banca mondiale - con meno di 70 centesimi di dollaro al giorno.
Credo che un mondo veramente globale dovrebbe comportarsi come una famiglia vera, dove si cresce tutti insieme e dove al povero che domanda aiuto non si risponde con posa evangelica "beati i poveri!".
Io così la vedo.

(«Il Caffè», 30 aprile 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano