martedì 22 giugno 2010

La morale non è sempre quella


Nel romanzo L’isola del dottor Moreau (1895), H. G. Wells racconta dell’avventura di un naufrago, Edward Prendick, giunto su un’isola popolata da mostri dalle sembianze umane. Egli non tarda a scoprire che i “mostri” sono in realtà animali che l’abilità chirurgica del dottor Moreau ha “umanizzato”: così, gli esseri camminano in posizione eretta, ma i modi e le fattezze ne tradiscono l’origine bestiale. Wells narra della difficile sopravvivenza di Prendick sull’isola, fino alla fuga conclusiva.
Se da un lato il racconto è un apologo della forza indomabile della natura e della sua superiorità rispetto alle pur eccelse capacità dell’uomo (per quanti sforzi Moreau faccia per perfezionare la sua tecnica, le creature tendono sempre a ritornare allo stato bestiale originario), dall’altro non è affatto una condanna della scienza tout court: ciò che viene condannato è la scienza fine a se stessa, priva di qualunque movente etico e di qualunque utilità, una scienza volta unicamente
alla propria autocelebrazione. Nel medioevo si sarebbe detto: una scienza separata dall’amore, parziale, che perciò non è vera conoscenza.
Ma, al di là di ciò, cos’è che rende tanto “conturbante” oggi la lettura di questo libro, del tutto scevro da descrizioni macabre o truculente? Probabilmente, è la sensazione della vicinanza, non solo nel senso che Wells riesce a coinvolgere il lettore al punto da farlo sentire “sull’isola” (come solo i grandi scrittori possono fare), ma anche nel senso che il lettore contemporaneo si immedesima nel protagonista in quanto rilegge nel genio del dottor Moreau lo stesso ispiratore della moderna ingegneria genetica: quello che desidera fabbricare un mondo a propria immagine e somiglianza.
Vorrei qui lasciare da parte l’annosa disputa fra posizioni pro e contro gli organismi geneticamente modificati (servono a sfamare i poveri, o li renderanno sempre più dipendenti dalle multinazionali? Ci offrono una qualità superiore, o ci fanno ingerire più pesticidi? La manipolazione genetica è un peccato contro la natura, o l’ovvia prosecuzione dell’innesto tradizionale con i metodi del terzo millennio?), per concentrarmi su quella che reputo essere una falsa contrapposizione: quella fra conservatorismo (solitamente associato alle tradizioni religiose, che si ritiene accettino lo status quo e siano contrarie ad ogni forma di evoluzione) e progressismo (solitamente associato alla scienza moderna e al laicismo, attratti dal superamento continuo). Perché è vero che un certo “sentire religioso” è vicino all’accettazione, alla contemplazione, anche alla rassegnazione, così come è vero che un atteggiamento scientifico pensa invece tipicamente in termini di frontiera da superare, mura da abbattere, vette da scalare. Ma io credo che, seppur in maniere diverse, ad entrambi non dispiacerebbe lo slogan “sempre più in alto!”: si tratta dunque, a mio vedere, di due diverse forme di progressismo; e si tratta di intendere in cosa, precisamente, risieda la differenza. Perché, in definitiva, neanche la religione (sospendendo per un attimo il giudizio sul fatto che la categoria di “religione” esista o meno ovvero possa essere definita in termini univoci) la “trasformazione” della natura non è qualcosa di cattivo in sé (per rimanere nell’ambito del cristianesimo, i miracoli di Gesù ne sono una testimonianza eloquente; così come la Chiesa cattolica di oggi non è certo contraria alla trasformazione dell’energia), ma qualcosa che ha (deve avere) un limite. Al di là del quale, “trasformare” degenera in “sfigurare”.

La figura delle cose
Ogni cosa ha una sua figura propria, che ce la rende prossima, familiare, cara. La figura comprende i rapporti interni fra le parti, ma anche le dimensioni: così possiamo riconoscere nostra moglie in una fotografia, ma non potremmo certo amare una donna in formato tessera (questo è uno dei motivi per cui le gigantesche mele verdi di Magritte sono tanto inquietanti: cfr. ad es. l’opera La camera d’ascolto). Ogni nostro rapporto con le cose, veicolato dal “simbolo” delle stesse, dalla loro figura, passa quindi – spesso inconsapevolmente – per la percezione del suo limite.
Il limite fa parte della realtà, ne è un ingrediente ineliminabile.  Tradizionalmente, un uomo incapace di riconoscere i suoi limiti propri era considerato uno stolto, uno che vuole “strafare”. Oggi, la nostra società capitalistica, che dello strafare ha fatto regola e vanto, si trova ogni giorno di più a dover prendere consapevolezza dell’esistenza del limite (e della necessità di adeguarvisi): l’assenza di limiti in economia ha generato l’attuale crisi finanziaria (e adesso tutti invocano l’introduzione di “regole”, cioè di “limiti”); il disastro ambientale e l’aumento della temperatura del pianeta ci pongono di fronte alla dissennatezza di un modello di sviluppo basato sulla crescita infinita (che è la definizione del cancro). Più in generale, l’idea che la libertà di ciascuno vada in parte limitata per garantire quella di tutti non è scandalosa: le nostre società si fondano su questo principio. Insomma, il limite è qualcosa che c’è anche quando non ce ne accorgiamo.
Del resto, è proprio l’esistenza del limite a rendere possibile che si parli di superamento: in una società ordinata (cioè limitata da regole) le regole possono essere modificate, le libertà ampliate, i limiti spostati; ma, in una società senza regole, nulla di ciò è possibile. Il limite è, per così dire, consustanziale al superamento; tuttavia, esso lo è non in quanto “fantoccio” da scavalcare, bensì nel senso più pieno del termine. Il limite e il progresso si trovano sullo stesso piano; sul quale insieme, e solo insieme, possono darsi.
Regola non vuol dire per forza impedimento, così come “ordine” non vuol dire immediatamente “totalitarismo”: ogni società si fonda sull’ordine ed è proprio l’ordine a consentire la vita, la felicità, la prosperità. Al di là di ogni ordine (di ogni regola) non vi è affatto la libertà suprema, ma il caos, la barbarie, la distruzione. La morte.
Il limite è la figura di ogni cosa, non un impedimento o una mutilazione. Una torta è bella con una ciliegina sopra, e non con un altro strato e poi un altro e un altro ancora. Era così per i pitagorici, che vedevano la perfezione nei numeri dispari, e per i quali l’estetica, l’etica e l’ontologia erano intrecciate. È così ancora oggi.
Non è una questione specialistica né settoriale; con il limite devono farci i conti tanto il filosofo quanto lo scienziato: nessuno di essi può andare fiero di un sapere in grado di produrre mostri, così come nessuno può accontentarsi di utilizzare “a dieci” una ragione che può andare “a cento”. Del resto la scienza non è né un sapere immorale né tanto meno amorale: “la scienza per la scienza” non è un’affermazione scientifica (cfr. ad es. R. Panikkar, La porta stretta della conoscenza, RCS, Milano 2005, pp. 105-106). Non esiste alcuna scienza senza morale perché non esiste nessun uomo che non ne abbia una. Il tacito presupposto morale della scienza moderna è: “la scienza è per l’uomo”. Dunque la scienza, proverbialmente insofferente dei limiti, è essa stessa a darsene: la scienza è per l’uomo, non è contro l’uomo. Si possono condurre esperimenti pericolosi su cavie animali, ma non umane. La scienza “senza limiti” può al più essere la fantasia di qualche ideologo della scienza, ma non certo degli scienziati. La scienza è refrattaria alle morali eteronome (che accendono quegli interminabili dibattiti mediatici che lasciano basiti per la loro immodernità), ma si fonda su una precisa morale autonoma. Essa sa bene che “maggior libertà” non è sempre e comunque sinonimo di “maggior progresso” e non confonde la morale sua propria con l’oscurantismo di chi dà il nome di “morale” alla propria mancanza di fantasia. Nella sua salda razionalità, la scienza sa di non essere disposta a pagare un prezzo troppo alto per il suo sapere (e si adopera perciò non a rinunciarvi in linea di principio; ma ad abbassarne il prezzo, questo sì).
Il problema non riguarda dunque l’accettazione di limiti (conservatorismo) o il loro rifiuto (progressismo): questo è un falso problema, una contrapposizione fittizia basata su categorie stilizzate e inattuali. Il problema è: come individuare il limite, dove piazzarlo, che nome dargli. Eventualmente, valutare l’opportunità di spostare quelli esistenti.

Due (false) verità
Esistono due filoni fondamentalisti della scienza appena tratteggiata: per il primo, la vita di un solo uomo vale più di tutto il resto del mondo, e si possono ben sterminare in esperimenti mille e più razze animali se questo può anche solo lontanamente far sperare nella cura di un essere umano sofferente; per il secondo, l’uomo è fatto per la ricerca, ed ogni limite alla ricerca, di qualsivoglia entità e tipo, mutila l’uomo nella sua essenza più profonda.
Si tratta di due verità; che però, come tutte le verità di cui si abusa, sono false. La seconda, come si è visto, non tiene conto della critica interna che la scienza rivolge a se stessa ed è più che altro il frutto dello scontro fra posizioni “moraliste” e “scientiste” intransigenti. La ricerca è, sì, indispensabile all’uomo e al suo anelito all’“oltre”; ma non vi è motivo di ritenere che essa debba di necessità e intrinsecamente essere forsennata, sbrigliata o addirittura crudele.
La prima richiede una riflessione ulteriore. È innegabile che ciascuno di noi, messo di fronte all’aut-aut, preferirebbe la vita di suo figlio a quella di un branco di topi. Ma è poi davvero indispensabile vivisezionare animali in quantità industriale per ottenere un progresso scientifico? La maggior parte degli esperimenti non è indirizzata direttamente a curare il cancro: si cuciono gli occhi dei cuccioli per “osservare come si sviluppa la rete neurale”. È chiaro che, prima o poi, da tali prassi scaturirà qualche conoscenza; così come è chiaro che, più ne sappiamo, meglio è. Tuttavia vi è davvero proporzione fra lo scempio che perpetriamo fra gli abitanti della natura e le conoscenze che ne ricaviamo “ad ogni buon conto”? Che “superiorità” è quella di un essere che utilizza la sua intelligenza per infliggere sofferenza a milioni di esseri “inferiori”? Perché non passare da una morale basata sul prendersi cura dell’uomo a una basata sul prendersi cura del tutto (come esortava a fare Periandro di Corinto ventisette secoli fa)?
“Abbi cura del tutto” potrebbe essere il motto riassuntivo del salto di qualità cui l’umanità può aspirare nel terzo millennio. Le sollecitazioni in tal senso vanno aumentando: basti pensare che l’ambiente oggi ci chiede il conto dell’inquinamento, dello spreco, dello sfruttamento selvaggio delle risorse; l’occasione potrebbe essere quella buona. È vero, aver cura del tutto pone un limite alla ricerca scientifica; ma esso non è dissimile da quello che la scienza, oggi, già si dà. Chi deciderà quale limite preferire? Dovrà essere la scienza stessa a scegliere, nessuno può farlo al posto suo. Questo, al contempo, significa che essa è assolutamente sovrana e libera di scegliere, che la scelta è una delle possibilità che le si offrono, non una castrazione.

Conclusione
I mostri creati da Moreau rimarrebbero tali anche se la loro umanizzazione fosse stata chirurgicamente perfetta. Infatti, che tipo di uomini sarebbero? Senza un passato, senza una famiglia, senza una crescita armoniosa, regolare, condivisa. Sarebbe errato intendere lo “sfiguramento” di cui si è parlato prima in senso banalmente estetico; non solo di estetica si tratta, né solo di etica. Si tratta piuttosto di entrare nella prospettiva dell’ordine della realtà, quello in cui le cose sono sempre già inscritte, prima del nostro arrivo, della nostra comprensione, della nostra trasformazione. Si tratta di entrare in un’ontologia nella quale l’uomo è parte della natura, non contrapposto a essa; in cui è compagno delle cose, non avversario.
“Entrare” in una siffatta ontologia implica un’azione, una decisione deliberata: perché, checché se ne dica, per quanto si parli di morale “naturale” o “rivelata”, la verità è che l’uomo la morale se la sceglie. La morale non è sempre la stessa.
D’altro canto, si tratta di scoprire la possibilità di un’etica che non è basata solo sull’azione, ma anche sulla contemplazione, sulla gioia che deriva dall’ammirazione della bellezza delle cose, non come avrebbero potuto essere, non come vorremmo che fossero, ma così, come esse sono, perché esse sono e non le abbiamo fatte noi. La realtà ci parla, e non per cantarci sempre la medesima litania: non si può distillare una “morale naturale” dalla realtà, cristallizzando certe intuizioni e tagliandone via altre. L’“ascolto delle cose” non rinvia ad un’accettazione supina, ma ad una “partecipazione” che non esclude né la trasformazione né il taglio del chirurgo, quando è necessario per evitare un male peggiore. L’uomo può decidere se fare di questo mondo un enorme laboratorio a cielo aperto, prendendosi cura solo di sé e del suo interesse, o se cominciare a comportarsi come un “giardiniere” che, al di là e prima di ogni intervento, ama le sue piante. E ha cura del tutto.

“L'agire umano e i suoi limiti”, «Il Margine», n° 5, maggio 2010.

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano