lunedì 1 marzo 2010

Libertà di stampa/1

Quello che più sorprende leggendo Libertà di stampa di Mark Twain (ed. PianoB, 2010) è la sua sconcertante attualità. Sembra letteralmente di inciampare in frasi come
esistono leggi per proteggere la libertà di stampa, ma nessuna che faccia qualcosa per proteggere le persone dalla stampa
(e il pensiero corre immediatamente all’affaire Boffo, il direttore del quotidiano “Avvenire” costretto alle dimissioni da una campagna stampa infamante fino all’animalesco) oppure
i nostri principi morali decadono in maniera direttamente proporzionale all’aumento del numero dei giornali. Più giornali ci sono, meno moralità c’è. Per un giornale che fa del bene, ce ne sono cinquanta che fanno del male
(osservazione talmente tanto calzante ai nostri giorni – probabilmente non da un punto di vista generale, ma certo da quello fenomenologico – che non si saprebbe da dove cominciare per commentarla).

«Nella nostra società il giornale ha una potenza immensa. Può creare o macchiare la reputazione di qualsiasi uomo. Ha la perfetta libertà di chiamare truffatore e ladro il miglior uomo della nazione, distruggendolo oltre ogni speranza».
M. TWAIN, Libertà di stampa, ed. PianoB, 2010

Twain stesso – il creatore dei personaggi letterari di Tom Sawyer e Huckleberry Finn – finì a sua volta vittima di una densissima campagna diffamatoria da parte di un gran numero di testate, all’indomani della sua candidatura al ruolo di Governatore dello Stato di New York (tanto che fu costretto a ritirarsi).
Circa lo scandalo della pubblicità sui giornali (si promettevano – scandalo di ben pochi anni fa – ad aziende influenti degli articoli compiacenti verso i loro prodotti, in cambio dell’acquisto di una certa fetta di pubblicità sul giornale da parte dell’azienda), si legga questo:
sui giornali dell’Ovest puoi servirti della voce editoriale degli articoli di fondo per difendere qualsiasi misero e infamante dogma tu voglia. Basta pagare un dollaro al rigo.
Ma il caso più clamoroso (per Twain; più attuale, per noi) è probabilmente quello del suo articolo The war prayer del 1905, scritto durante la guerra filippino-americana. Twain immaginò dei cristiani riuniti in chiesa una domenica, intenti a pregare per la vittoria degli americani e per la sconfitta dei nemici. A un certo punto una figura misteriosa – che ricorda il Gesù Cristo della scena dell’Inquisitore di Dostoevskij – entra in chiesa, sale sul pulpito e prende la parola davanti alla folla attonita. Queste le sue parole:
nel momento in cui avete pregato per la vittoria, avete pregato anche per molti effetti non detti che seguono la guerra, che sempre la seguono, che non possono non seguirla. [Ecco il senso delle vostre parole]: O Signore e Padre nostro, aiutaci a ridurre a brandelli insanguinati i soldati nemici con i nostri proiettili, aiutaci a coprire i loro campi ridenti con le esanimi forme dei loro patrioti morti; aiutaci a devastare le loro umili case con uragani di fuoco.
È inutile che lo si scriva, certo, perché va da sé: l’articolo fu censurato e rimase inedito per 18 anni, fino al 1923. E voi, cent’anni dopo, avete letto qualcosa di simile sui giornali a proposito delle “nostre” guerre in Iraq e in Afghanistan? O dopo la morte a Kabul dei sei giovani militari italiani?
Prego il Dio dell’amore di darci la pace, di darla a tutti gli uomini e nello stesso momento. Perché, se non avverrà così, dubito che i giornali ce ne daranno notizia.

(«Il Caffè», 26 febbraio 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano