giovedì 11 marzo 2010

Il filosofo è sempre lieto. Intervista ad Antonio Rigopoulos

Ci sono proprio tutti alla conferenza internazionale organizzata a Venezia dal 5 al 7 maggio 2008 in occasione dei novant'anni di Raimon Panikkar. Ogni amico, collega, allievo, discepolo, è convenuto qui da ogni parte del mondo: Italia, India, Germania, Australia, Stati Uniti, Tunisia, Nuova Zelanda, Giappone, Corea, Spagna, per tributare il suo omaggio a «un maestro del nostro tempo».
L'auditorium Santa Margherita dell'università Ca' Foscari (organizzatrice del convegno, insieme al Centro studi interculturali di Tavertet - Barcellona e al Centro studi Maitreya di Venezia) è gremito. Trecento persone affollano la sala quando, all'improvviso, Panikkar entra nell'auditorium, reggendosi al bastone da un lato e all'immancabile Milena Carrara dall'altro.
Il saluto iniziale è porto da Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, nel corso del quale sottolinea come la nostra epoca - caratterizzata dallo specialismo e dalla mancanza di una visione d'insieme delle cose - abbia bisogno di una filosofia come quella di Panikkar, in grado di restituire l'armonia e il legame fra le varie parti della realtà. Dopo di lui, è Panikkar a porgere il suo saluto e il suo «grazie», spiegando ai convenuti che la mistica - che dà il titolo al convegno - non è un'esperienza estatica o magari patologica di pochi «eletti», bensì pienezza della vita, esperienza quotidiana, aperta a tutti, della profondità della realtà e del legame che essa tesse con tutto ciò che è. Che tutto è interconnesso e che nessun uomo è un'isola, questo è il fondamento della mistica. Tra i vari interventi, in italiano e in inglese, che si sono susseguiti nel tre giorni del convegno (tra cui quelli dell'ex segretario di Panikkar, Jordi Pigem, dal titolo «Ramon Llull e Raimon Panikkar», quello di Jaume Agusti, fisico catalano, sull'esigenza di una «umanizzazione» della scienza a partire dal paradigma esperienza/esperimento di Panikkar e quello di Achille Rossi sull'attualità della mistica e la sua sfida al mondo contemporaneo) spicca quello del prof. Antonio Rigopoulos, dell'Università Ca' Foscari, centrato sul rapporto tra la metafisica cosmoteandrica di Panikkar e quella indiana), per l'originalità del tema scelto e per la sorprendente chiarezza nell'affrontare un tema tanto complesso e sfaccettato.


Abbiamo approfittato dell'occasione per intervistare il prof. Rigopoulos sul tema del rapporto tra la metafisica cosmoteandrica di Panikkar e una delle principali correnti filosofiche indiane, il monismo di Sankara.

Prof. Rigopoulos, Lei conosce Panikkar personalmente da quasi trent'anni. Come avvenne questo incontro?
Ho conosciuto R. Panikkar nei primi anni '80 tramite il suo testo Myth, Faith and Hermeneutics [oggi tradotto in italiano con il titolo Mito, fede ed ermeneutica], che rimane a mio avviso un testo imprescindibile per la comprensione di questo autore, una sorta di summa del suo pensiero, nonostante sia un po' datato. Vi ero stato introdotto dai miei maestri nel campo della storia delle religioni, i professori Franco Michelini-Tocci (a Venezia) e il prof. Mario Piantelli (a Torino). Successivamente ebbi l'occasione di conoscerlo di persona ad Assisi, alla Cittadella, nell'ambito di alcuni incontri di carattere interreligioso. Nel settembre del 1987, appena laureato, pensando di poter lavorare con lui al mio dottorato di ricerca, andai con una borsa di studio all'Università di Santa Barbara, in California, dove sapevo che Panikkar insegnava. La delusione fu scoprire che il prof. Panikkar si era appena ritirato dall'insegnamento, anche se continuava a seguire alcuni suoi studenti e a tenere seminari e ritiri. Fu nell'ambito di quegli incontri che potei conoscerlo più da vicino. Decisi comunque di rimanere alla UCSB e conseguii il mio PhD sotto la guida del prof. G. J. Larson, uno specialista di Samkhya.
È luogo comune affermare la rigida separazione, nel mondo occidentale, di religione e filosofia, intesi come ambiti rispettivamente delle fede e della ragione, così come si dà spesso per scontata l'identificazione o almeno l'unità delle due discipline nel mondo orientale. Possiamo affermare che una differenza esista anche nel mondo orientale e che, viceversa, è scorretto tracciare una così netta linea di demarcazione per l'Occidente?
Si tratta di un equivoco. L'India ha una straordinaria tradizione di pensiero teoretico, estremamente precisa e rigorosa (basti pensare alle scienze del linguaggio). Certo, anche negli orizzonti di pensiero più complessi e sofisticati è possibile individuare uno spirito 'religioso', un fine soteriologico, ove la pura teoresi si connette alla prassi in vista della liberazione (moksha); ma questo è tipico anche del pensiero greco antico, penso alla lezione di un grande studioso come Pierre Hadot o anche di Michel Foucault, che giustamente hanno sottolineato quest'elemento. Relativamente all'India, si possono leggere delle limpide, autorevoli osservazioni di Raffaele Torella sulla tensione tra quelle che noi chiamiamo 'filosofia' e 'religione' (Il pensiero indiano. In AA. VV., Storia della scienza, vol. 2, cap. 2, Treccani, Roma, pp. 638-689). Nondimeno, sarebbe ingiusto dire che nelle prospettive 'filosofiche' indiane vi sia una sorta d'ossessione metafisica. Non è così. Il problema origina dalla nostra traduzione delle nozioni hindu; le nostre categorie mal s'attagliano all'universo brahmanico. Penso che il problema fondamentale sia di partenza, cioè riguardi il fatto che, semanticamente, il campo del discorso delle 'religioni' e delle 'filosofie' non è sic et simpliciter applicabile al contesto indiano.
Torniamo dunque alla solita mentalità colonialistica che pretende di imporre le proprie categorie a una cultura che è loro estranea.
In realtà tali categorie, anche se improprie, possono essere applicate criticamente. In ultima istanza è pur vero che - per riuscire a comunicare - qualche categoria bisogna pur usarla, ed è impossibile non partire dalle proprie. La problematizzazione di queste categorie unitamente alla comprensione 'contestualizzata' di quelle indiane sono viatico al 'dialogo dialogico' auspicato da Panikkar.
Nel corso di questo convegno Panikkar ha ricordato il legame tra la filosofia e la serenità dell'animo in Occidente, citando in proposito Cicerone e Ramon Llull per i quali «il filosofo è sempre lieto». Quanto questo legame è caratteristico anche del pensiero indiano?
Il tema della felicità è un tema intrinsecamente religioso. L'elemento della gioia e di Dio come Fonte della gioia è tema classico. L'uomo che ha attinto la liberazione dal ciclo del divenire, dal dolore, è la personificazione di ananda, termine che nella nostra lingua viene generalmente reso con «beatitudine» (traduzione forse inadeguata dal momento che «beatitudine» evoca spesso una sorta di 'inebetimento' del soggetto; meglio gioia). È un'esperienza di pura gioia o del vivere la vita 'tempiternamente' direbbe Panikkar. Questo essere dinamicamente nella gioia, momento per momento, è il contrassegno del santo. Il liberato (jivanmukta) è il sempre lieto, sostanziato di pace e equanimità.
Nel corso del Suo intervento a questo convegno ha sostenuto che Panikkar restituisce della filosofia di Sankara un'immagine un po' «deformata» a favore della visione cosmoteandrica. Si puo dire a suo avviso che Panikkar forzi certe categorie del pensiero indiano per adeguarle alle esigenze del dialogo interculturale?
Il problema, strictu sensu, è il problema della maya, dell'illusione/apparenza: non ci può essere relazione nel Brahman sankariano, nel senso che il Brahman è Uno, senza secondo. Una volta che si sia dato il riconoscimento della radicale alterità del Brahman l'universo fenomenico è vanificato, ossia lo si riconosce privo di statuto ontologico. Il fenomenico è 'dissolto' nell'esperienza della Realtà del Brahman. Nell'ambito del 'puro' kevala-advaita-vedanta sankariano non si da alcuna effettiva relazione tra 'Dio e mondo', anche volendo personalizzare il Brahman quale divinità suprema (l'apparente relazione, per quanto importante nell'iter che mena al moksha, è solo propedeutica e andrà trascesa). Piuttosto, la dimensione 'cosmoteandrica' è confrontabile con altre scuole del Vedanta, che riconoscono al mondo un qualche statuto ontologico (penso a indirizzi come quelli di Ramanuja o Madhva, allo Sivaismo del Kashmir e alle tante forme di nondualismo devozionale, advaita-bhakti): questi orizzonti metafisici possono essere più congruamente raffrontati con la teologia trinitaria cristiana, in vista del riconoscimento di quelli che il Nostro chiama 'equivalenti omeomorfici' (pur nell'opzione d'un pluralismo radicale delle fedi). Con Sankara l'operazione appare impossibile. Ma proprio per questo credo che il mistico prim'ancora che il teologo Panikkar abbia scelto di confrontarsi con lui. Ricordo che all'Università di Santa Barbara, quando noi studenti gli chiedevamo come fosse possibile diventare l'altro, immedesimarsi completamente nell'altro, lui era solito risponderci:
Lo so, è impossibile, ma dobbiamo farlo!

(«Dialegesthai», 8 marzo 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano