sabato 20 febbraio 2010

Gandhi e la civiltà moderna

di Gloria Germani

A cento anni dalla sua pubblicazione, esce in Italia il testo fondamentale per capire il pensiero di Gandhi: Vi spiego i mali della Civiltà Moderna - Hindi Swaraj (ed. Centro Gandhi, 2010). Il merito di questa prima traduzione italiana del testo originale del 1909-10 scritto da Gandhi nella sua lingua madre (il gujarati) e in inglese, è di Rocco Altieri, infaticabile alfiere della nonviolenza, e la scelta non poteva essere più tempestiva e opportuna.
Vi spiego i mali della Civiltà moderna-Hindi Swaraj rappresenta il Manifesto del pensiero della nonviolenza, scritto quando Gandhi aveva 40 anni, cioè 3 anni dopo la sua prima campagna satyagraha (forza della verità) di disobbedienza civile lanciata in Sud Africa. A quasi quaranta anni di distanza Gandhi ribadiva che niente era cambiato nel suo modo di vedere, rispetto a quello che aveva scritto allora. Leon Tolstoj che lo lesse pochi mesi prima di morire, lo ritenne “della massima importanza, non solo per l’India, ma per l’intera umanità”.
Hindhi Swaraj risulta di fatto ancora più profetico oggi, perché i mali che allora avvisava Gandhi si sono manifestati dopo 100 anni in tutta la loro evidenza. La crisi ambientale e il surriscaldamento globale, la crisi economica attuale, il declino inesorabile dell’etica, sono temi di cruciale attualità che possono essere tutti ricondotti all’atteggiamento violento che Gandhi deprecava.
L’obbiettivo più immediato di Gandhi in questo “libretto incredibilmente semplice” è di far capire ai suoi connazionali che compiono un errore di fondo nella loro valutazione del problema del colonialismo. Essi imputano i mali della civiltà moderna agli inglesi e credono di poter adottare i moderni metodi violenti per scacciare gli inglesi dall’India.
Ma non esiste – e questo è il suo messaggio ancor oggi rivoluzionario – una barriera invalicabile tra Oriente ed Occidente, come non esiste una differenza sostanziale tra uomini europei e uomini indiani. Esiste invece una Civiltà Moderna che è completamente materialista e che fa del benessere materiale l’unico scopo della vita. Non è il popolo britannico che sta dominando l’India ma la civiltà moderna per mezzo della sue ferrovie, dei suoi telefoni e di ogni altra invenzione che viene esaltata come il trionfo della civiltà.
Occorre infatti porsi la domanda: cos’è la vera civiltà? Tiziano Terzani nel suo ultimo libro, riprende proprio questa domanda che Gandhi pone nel 1909 (La fine è il mio inizio, p. 397). E come Gandhi incalza: è civiltà quella moderna che misura il progresso in quanti abiti la gente ha? In quanto velocemente si sposta? In quanta gente che invece di lavorare nei campi all’aria aperta, è costretta a andare in fabbrica o in miniera? In quanti oggetti producono le fabbriche?
Gandhi ha parole durissime in tutto il libro che non è possibile smorzare; critica radicalmente la modernità e il progresso con i suoi ospedali, i suoi avvocati, le sue macchine, perché il suo progetto per il futuro dell’umanità era quello di riprendere la via dei villaggi anziché quella delle fabbriche che in 100 anni ci hanno portato alla collasso ecologico, ma anche, come vedremo a quella etica ed economica. Terzani si domanda: perché distruggere i villaggi? Villaggio vuol dire comunità, vuol dire spartire le risorse! E Gandhi esorta: le cosiddette classi superiori devono imparare a vivere coscientemente, religiosamente e volontariamente la semplice vita contadina, riconoscendo come essa dia la era felicità.
Non sono queste le stesse posizioni dei nostri ecologisti più all’avanguardia e dei movimenti per la Decrescita? Ma l’ottica di Gandhi è molto più vasta. Infatti alla domanda di cosa sia la vera civiltà, risponde: “la vera civiltà è quella forma di condotta che indica all’uomo il cammino del dovere e l’osservanza della moralità. L’osservare la moralità significa ottenere la padronanza della nostra mente e delle nostre passioni” (p. 75). Se questa definizione è corretta, prosegue Gandhi, l’India non ha niente da imparare da nessuno, in particolare dalla supposta civiltà moderna.
Gandhi infatti non parla in maniera originale ma, come ha sempre ribadito, si poggia sull’antica civiltà indiana, su verità che sono “antiche come le montagne”. Questa tradizione ha indagato a fondo il problema della felicità ed ha sempre saputo che “la mente è un uccello irrequieto; più ottiene, e più vuole e rimane comunque insoddisfatta. In nostri antenati, perciò, misero un limite alle nostre indulgenze. Essi videro che la felicità era, in larga misura, una condizione mentale”.
In altre parole, un uomo non è necessariamente felice se è ricco, o infelice se è povero. Quindi gli antichi saggi indiani hanno dissuaso l’uomo dall’indulgere sui piaceri e sui lussi, perché questa non è la strada che conduce alla felicità. È questa la ragione profonda per cui la civiltà indiana o più generalmente orientale, non ha imboccato lo sviluppo tecnologico, come invece ha fatto la cosiddetta civiltà moderna. “Non si trattava di non saper come inventare le macchine, ma i nostri padri sapevano che, se avessimo dedicato i nostri cuori a tali cose, ne daremmo diventati schiavi, e avremmo perso la nostra fibra morale. Essi quindi, dopo doverosa riflessione, decisero che avremmo fatto solo ciò che potevamo fare con le nostre mani e piedi”. Con queste parole, Gandhi coglie il nocciolo del problema modernità e dei vicoli ciechi in cui gli uomini moderni si ritrovano smarriti.
Come un medico che deve prima capire la vera causa della malattia per poter prescrive la giusta cura, così Gandhi afferma che la visione materialista moderna nasce – alla radice – da un atteggiamento di massima indulgenza verso se stessi. A partire da questa diagnosi, le sue parole diventano profetiche. Cento anni fa il Mahatma scriveva che gli inglesi – non in quanto tali, ma in quanto intossicati della civiltà moderna – “desiderano trasformare il mondo intero in un enorme mercato per le loro merci e non lasceranno niente di intentato per raggiungere il loro scopo” (p. 57). Dall’altra parte, gli indiani – ma oggi potremmo aggiungere anche i cinesi – abbracciano la civiltà moderna non perché sono costretti dagli inglesi, per i loro “meschini interessi”, perché gli piacciono i loro commerci, perché indulgono nelle passioni più basse. Gandhi ovviamente riconosce che in nessuna parte del modo e sotto nessuna civiltà gli uomini hanno raggiunto la perfezione, ma la tendenza della civiltà indiana è di elevare l’essere morale, quella della civiltà occidentale di propagare l’immoralità.
In questo stesso spirito, Vivekananda nel suo memorabile discorso Parlamento mondiale delle religioni a Chicago, parlò dell’India come del Guru delle Nazioni, della civiltà che avrebbe potuto insegnare alle altre la via per la saggezza e per la vera felicità.
Quando parliamo di civiltà, bisognerebbe ricordarsi che cento anni non molti e questo cristallino testo di Gandhi è oggi più che mai attuale. Come sottolinea Altieri nell’introduzione, esso tocca esplicitamente temi tra i più significativi del dibattito odierno: la critica allo sviluppo (Vandana Shiva, Wolfgang Sachs), la critica al monopolio tecnologico (Illich, Mumford), la critica alle professionalità istituzionalizzate (Illich, Merton), il movimento della decrescita felice (Latouche, Pallante), fino alla protezione della natura e la scelta vegetariana (Rifkin).
Lo straordinario messaggio del Mahatma Gandhi sulla nonviolenza rimane più che mai fecondo a patto però che non lo si separi e lo estrapoli (come viene per lo più fatto) da ciò che egli continuamente ribadisce nel nostro testo. Per prima cosa, dall’antica civiltà indiana che Gandhi reputava senza giri di parole “la migliore che il mondo abbia mai visto” e, dall’altra, dall’ambito religioso a cui si appella senza sosta. Siamo noi, piuttosto, che dobbiamo fare uno sforzo di comprensione per intendere “religione” al di fuori dei ristretti paradigmi sia del materialismo, che della dogmatica cattolica. La dobbiamo intendere cioè, nel suo senso autentico – che poi è il fulcro di tutte le religioni: l’induismo, l’islam, il buddismo, lo zoroastrismo, il cristianesimo, l’ebraismo – cioè come quella dimensione spirituale (collettiva e non privata) che “cambia la nostra intima natura, che ci lega in profondità alla verità e ci purifica costantemente”.
Mohandas Karamchand Gandhi, politico e filosofo indiano, è stato una delle più importanti guide spirituali dell’India del Novecento. Per il suo impegno a favore della pace e per la teoria e la pratica della non violenza gli è stato attribuito l’appellativo di “mahatma” (grande anima). Ai suoi insegnamenti si sono ispirati numerosi leader mondiali di movimenti pacifici, tra i quali Martin Luther King, Nelson Mandela e Aung San Suu Kyi. Tra i suoi scritti principali: Antiche come le montagne (Mondadori, 2009); Le grandi religioni. Induismo, Buddhismo, Cristianesimo, Islamismo (Newton Compton, 2009); Una guerra senza violenza. La nascita della nonviolenza moderna (Centro Gandhi, 2009).
Rocco Altieri ha conseguito la laurea in sociologia e in lettere presso l’Università Federico II di Napoli e il magistero in scienze religiose presso la Facoltà Teologica dell’Italia meridionale San Tommaso d’Aquino di Napoli. È il fondatore e il direttore della rivista semestrale di studi e ricerche sul metodo nonviolento Quaderni Satyagraha edita dal Centro Gandhi di Pisa e tiene conferenze e lezioni sulla nonviolenza nelle scuole, nelle università e presso centri culturali di numerose città italiane. Tra le sue pubblicazioni: La rivoluzione nonviolenta, Pisa, BFS edizioni, 20032; La nonviolenza dei popoli può sconfiggere la guerra, Pisa, Edizioni Plus, 2003; Pacifismo e nonviolenza, Pisa, Edizioni Plus, 2003; Nonviolenza per Gerusalemme, Pisa, Edizioni Plus, 2004.

(«il Recensore.com», 19 febbraio 2010, poi ripubblicato in «Filosofia.it», 23 febbraio 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano