Il 13 dicembre 2009 Massimo Tartaglia ferisce il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, lanciandogli un oggetto in pieno viso. A destra, il ritornello è: “è stata montata una campagna d’odio contro Berlusconi”; segue l’elenco dei “mandanti morali” del delitto. Ma non è questo il primo caso di violenza: l’anno scorso, poco prima di Natale, anche Renato Brunetta ha rischiato di venir linciato a San Gregorio Armeno da un gruppo di studenti (e se l’è cavata per il rotto della cuffia).
Ora. Accade sempre che l’opposizione se la prenda col governo, che si tratti della destra o della sinistra. Quando la sinistra attacca Berlusconi, sta attaccando il Presidente del Consiglio, non un privato cittadino che per qualche oscuro motivo dovrebbe esserle più antipatico degli altri: è ovvio, ma giova ripeterlo. Non c’è nessuna “campagna d’odio” contro Berlusconi (mentre è tipico di questa destra fare della politica una questione personale, con i suoi vari “meno male che Silvio c’è”). Intanto però i due episodi di violenza fisica (uno tentato soltanto, come dicevo) si sono avuti ai danni di due esponenti della destra. Una coincidenza?
Da un lato mi sembra troppo facile dire, ad esempio con Di Pietro, che Berlusconi istiga alla violenza: dalle nostre parti si usa dire che certi personaggi “i paccheri te li tirano dalle mani”; e in molti casi è vero, ma lo è per molti (in primo luogo proprio per Di Pietro, il cui atteggiamento certe volte è irritante perfino per chi è d’accordo con lui).
Purtroppo temo che il problema sia più grave. Berlusconi non è un bersaglio politico più di quanto lo sia stato Prodi o di quanto lo sarà il prossimo Presidente del Consiglio (certo a Berlusconi non giova il culto della personalità con il quale si autocelebra definendosi superman, uno con le palle, ecc. – tramite il quale il suo partito cerca di farne un capo carismatico oltre ogni ruolo – e decenza – istituzionale: ma questo è un altro discorso).
Il problema, mi azzardo qui a dire, non è lui. O meglio, non più. È la gente. È quella gente alla quale lui e il suo governo da due anni (ma anche prima, in forma più lieve) non fa altro che ripetere che la giustizia bisogna farsela con le mani proprie (con le leggi ad personam sulla giustizia, con l’attacco continuo alle “toghe rosse” e alla magistratura tutta, ecc.). Gente a cui si sta insomma insegnando che le regole non sono altro che dei limiti (paradossale e indebita – ma non del tutto imprevedibile – estensione del concetto di deregulation), che lo stesso Stato di diritto non è altro che una malcelata guerra di tutti contro tutti da vincere attaccandosi al carro dei vincitori e che il migliore non è il più onesto, capace ed instancabile, bensì colui che sa porre se stesso al di sopra di tutti gli altri (e di ogni legge).
E la gente – che come dicevamo qualche settimana fa, scema non è – ha mangiato la foglia. Questo è il problema. Spero di sbagliarmi su questo punto, ma ora temo che non basti più écraser l’infâme, e che ci sia invece un popolo intero da rieducare. Lo dico come provocazione, ma con lucidità (non dunque per fomentare la polemica, ma per riflettere con più chiarezza): il peccato di Tartaglia è stato l’impazienza. Se avesse saputo aspettare fino a farsi eleggere Presidente del Consiglio, oggi non sarebbe in galera: sarebbe a Montecitorio a sporgere querele ai giornali, a sbraitare frasi come “non mi lascerò mai processare” e a preparare la sua nuova ed ennesima immunità parlamentare.
(«Il Caffè», 22 gennaio 2010)
lunedì 25 gennaio 2010
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