martedì 15 dicembre 2009

R. Marchesini, Il tramonto dell'uomo, ed. Dedalo, 2009


La tesi che Marchesini sostiene in questo suo ultimo libro è chiara fin dalle prime pagine: il Novecento è l’epoca in cui il paradigma umanistico è tramontato mentre nasceva, al suo posto, quello post-umanistico. Prima di spiegare i motivi del declino dell’Umanismo, l’autore ne ricapitola i tratti salienti: la disgiuntività, cioè l’idea che l’uomo spicchi nella realtà come entità separata, ‘totalmente altra’ rispetto a ogni cosa; l’antropocentrismo, ossia il ritenere le entità non umane funzionali al destino dell’uomo (da cui consegue la strumentalizzazione e reificazione di tutto ciò che non appartiene al genere umano); l’autopoiesi, vale a dire l’autosufficienza dell’uomo in ordine alla creazione e gestione della sua propria dimensione, all’emanazione dei suoi predicati e al dispiegamento delle qualità a lui inerenti; la sussuntività, ovvero l’idea
di uomo come summa di ogni ente, capace cioè di contenere il mondo, di essere ad esso co-estensivo e parimenti di essere misura del mondo; infine, la virtualità, l’idea di totale mancanza di limiti, ovvero possibilità di qualunque declinazione, l’umano come apeiron (pp. 7-8).
Il post-umanismo ritiene che questi assunti siano oggi insostenibili o quanto meno inadeguati a dar conto di una realtà umana che sempre più frequentemente è sottoposta all’invasione della tecnologia; se fino a poco tempo fa si poteva ancora pensare alla tecnologia in senso ‘ergonomico’ (cioè come qualcosa che si aggiungeva alla natura umana senza alterarne le qualità, anzi assecondandole, tutt’al più potenziando alcune facoltà: si pensi ad esempio all’apparecchio acustico o agli occhiali), tale prospettiva viene oggi invalidata dallo sviluppo incessante della tecnologia, che rende manifesta l’ibridazione tra l’umano e il tecnico e l’emergere di caratteristiche nuove, frutto appunto del meticciato: 
oggi sappiamo, per esempio, che le prassi incidono sulla cablatura sinaptica del cervello, il che equivale a dire che le tecniche si incarnano, ovvero danno struttura al nostro corpo (p. 20).
Non è dunque più possibile sostenere una visione disgiuntiva, che si rifà ad una ‘purezza’ e ad un’‘essenza’ umane che crollano sotto i colpi del cambiamento continuo ad opera della tecnologia cui assistiamo. Similmente ne esce incrinata anche la pretesa antropo-poietica tipica dell’Umanismo, l’idea cioè che l’uomo possegga la titolarità piena della propria umanità e che pertanto la questione dell’influenza della tecnologia nella vita dell’uomo sia solo un problema di modalità d’uso. I due presupposti dell’Umanismo: 1. la tecnologia viene usata dall’uomo ma non modifica i predicati, ossia le qualità e i fini, dell’umano e 2. la tecnologia è emanazione dell’uomo, sua esclusiva e diretta produzione, intuitiva e creativa, pertanto non intacca la purezza dell’essenza uomo, semmai la magnifica (p. 156) non sopravvivono agli esiti dello sviluppo tecnologico del ventesimo secolo. Per il post-umanismo, infatti, la tecnologia non è solo strumento, ma partner che modifica l’uomo in quanto entità biologica; in più, la tecnologia non è un’emanazione dell’uomo bensì il frutto della coniugazione con il non umano: 
la tecnologica trasforma l’epistemica umana, importa modelli non umani nella dimensione ontopoietica dell’uomo, modifica la percezione performativa che l’uomo ha di se stesso, facilita i processi in interscambio referenziale con il non umano: insomma coniuga e ibrida, non separa e purifica, antropodecentra e non rafforza il pensiero antropocentrato (p. 157).
Altro fondamento dell’Umanismo, anch’esso insostenibile dal punto di vista post-umanistico, è quello della separazione netta fra l’umano e il non umano, la res extensa e res cogitans, ciò che è libero e imprevedibile e ciò che invece è determinato e calcolabile. L’Umanismo teorizza l’universo come un meccanismo regolato da leggi certe e il sapere come la possibilità di controllare questo meccanismo e prevederne gli sviluppi. Tuttavia tale visione delle cose segna il passo di fronte alla meccanica quantistica e alla fisica della complessità: non solo infatti l’universo, a certi livelli, si presenta come incalcolabile (è il caso ad esempio dei sistemi caotici), ma la realtà mostra comportamenti che sfidano il nostro stesso concetto di libertà (come nel caso dell’esperimento quantistico delle lastre semiriflettenti). Così il confine tra ciò che è umano (nel senso appunto di libero e imprevedibile) e ciò che non lo è si fa sfumato, inafferrabile; pretendere di afferrarsi saldamente al vecchio paradigma dualistico natura/cultura, afferma Marchesini, è anacronistico. Il post-umanismo, “visione inclusiva e ibridativa”, ne prende atto e 
considera l’umano non più come emanazione delle qualità inerenti nella nostra specie, bensì come cammino di integrazione del non umano (pp. 23-24).
La concezione post-umanistica dell’uomo, della vita, della realtà ha per Marchesini delle ripercussioni anche nell’ambito della convivenza civile. Una tale visione, che preferisce allo sguardo dominatore, onnicomprensivo e superiore della ragione calcolante (secondo l’immagine di Laplace) l’idea di un sapere in grado di ascoltare il mondo, che va formandosi con il mondo e non contro di esso, offre un saldo sostegno al multiculturalismo di cui si ha bisogno oggi (contro le derive cosiddette ‘identitarie’ – ma a ben vedere nient’altro che xenofobe) per far fronte all’incontro forzato (a causa della globalizzazione e delle pressioni migratorie) tra culture diverse e talvolta fra prassi incompatibili. Il post-umanismo permette di superare il ‘mito della purezza’, cioè quello delle essenze da esaltare, preservare, rivendicare e in ultima istanza opporre a tutto il resto, e di scoprire che l’incontro è un’occasione più che un rischio. Permette di scoprire che “nessun uomo è un’isola” (per dirla con Thomas Merton) e che lo scambio reciproco è oggi più che mai un fattore di sopravvivenza. Lo scambio può essere visto come opportunità di arricchire la propria identità solo se non si concepisce quest’ultima come qualcosa di statico, rigido, immutabile, dato una volta per tutte; altrimenti ogni contributo verrà percepito come una diluizione. In definitiva, l’Umanismo si presenta come una ideologia che non è all’altezza del nostro tempo globale: 
in una temperie dove i processi di globalizzazione, nelle loro varie scansioni, vengono accelerati e articolati [...] tale impostazione diviene inevitabilmente foriera di conflitti ancorché sommersi, dove cioè la dialettica del confronto e della condivisione non trovano altra possibilità che assumere i connotati dello scontro e del rifiuto (pp. 190-191).
Oggi, all’epoca del ‘tramonto dell’uomo’ (cioè dell’idea essenzialistica di uomo che l’Umanismo propone), abbiamo bisogno di una prospettiva che sappia accogliere le istanze provenienti dall’arte, dalla filosofia, dalla letteratura: per Marchesini, la prospettiva post-umanistica – ancorché frammentaria e priva di un vero e proprio ‘manifesto’ – può costituire una valida alternativa. All’altezza del nostro tempo.

(«ReF», n° 45, dicembre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano