giovedì 19 novembre 2009

E. Lévinas, Trascendenza e intelligibilità, ed. Marietti, 2009


Trascendenza e intelligibilità (ed. Marietti, 2009) è il testo di una conferenza di carattere filosofico tenuta da Emmanuel Lévinas il 1° giugno 1983 all’Università di Ginevra, all’interno di un ciclo di interventi dal titolo “Verità e illusione della metafisica”. Il testo è seguito da quello della Conversazione avutasi il giorno seguente alla Conferenza, a casa del prof. Jean Halpérin e alla presenza di alcuni suoi amici protestanti, cattolici ed ebrei.
La domanda cui Lévinas tenta di rispondere in questo volume è: come si può esprimere, in un linguaggio rigorosamente filosofico, ciò che per sua definizione sfugge a ogni riduzione linguistica e al pensiero stesso, il “trascendente”, l’“infinito”, il “totalmente altro”? E come si può conciliare la sua pretesa di situarsi “al di là dell’essere” con la pretesa altrettanto radicale
della ragione occidentale, per la quale essere e pensare dicono il medesimo (Parmenide), ciò che è reale è razionale (Hegel) e “di ciò di cui è impossibile parlare, bisognerebbe tacere” (Wittgenstein)?
Problemi ineludibili, per quanto in apparenza insolubili: Lévinas sottolinea come la sua impresa filosofica faccia eco
ad una esigenza spirituale antichissima, alla quale i filosofi non avevano smesso di rispondere. Essi non erano chiamati a conferire la certezza della scienza all’insicurezza essenziale delle vie aperte dalla Rivelazione, che bisogna percorrere a proprio rischio e pericolo. Essi venivano a far sentire una voce di cui è necessario ricordare il timbro prima di ascoltare la Rivelazione, timbro familiare o a priori, timbro che occorre quindi saper riconoscere per osare fidarsi della parola articolata.
Lévinas rileva l’impossibilità di un pensiero della trascendenza che voglia fondarsi sull’esaustività e sulla autofondazione (in senso cartesiano, ma ancor prima greco) della ragione; semplicemente perché non vi è alcun luogo, nell’ambito di una siffatta razionalità che ha ragione in ultima istanza di ogni alterità, di ciò che non può venir altrimenti caratterizzato che come “altro”.
Come noto, il filosofo lituano intravede in questa impossibilità di com-prendere l’altro (inteso come alterità in generale), di ingabbiarlo in un sistema di comprensione definitivo e completo non già una deficienza della ragione o quasi dell’essere di fronte a essa, bensì una chiave di lettura ontologica dello stato delle cose.
Noi continuiamo a parlare della socialità come di una confusione incompleta o come di una incompleta concretezza dell’unità tra termini. Continuiamo a deplorare il fatto che siamo in due nell’amore, mentre a mio avviso è proprio questa dualità la cosa più importante.
È qui che si innesta nel pensiero filosofico il sapere delle religioni, che parlano di un dono che è a monte di ogni riflessione, e che fonda ogni possibilità del pensiero e della stessa ragione. La lettura che l’uomo (anche filosofo) religioso dà delle cose è sempre una lettura “prevenuta”: non carica di pregiudizio o dogmatismo o fanatismo, ma consapevole di essere pro-veniente da un’esperienza primordiale non di autogenerazione, bensì di derivazione; non di autosussistenza, ma di legame. Banalmente è la presa di coscienza dell’uomo di non essersi fatto da solo, e della conseguente della necessità di porsi in ascolto di quella sorgente da cui tutto deriva: quella trascendenza, appunto, alla quale ogni cosa è legata ma che in nulla – nemmeno nella somma di tutto ciò che è – si esaurisce.
L’opera non ha ovviamente il respiro e la complessità teoretica degli scritti principali di Lévinas, ma introduce al cuore della speculazione del filosofo, ricapitolata nell’utile e chiara postfazione di Franco Camera.

(«il Recensore.com», 19 novembre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano