

Il libro di Andrea Cavalletti, Classe, ed. Bollati Boringhieri, si concentra su un concetto che molti ritengono possa essere archiviato come un’anticaglia: quello, appunto, di “classe”. A differenza della massa, aggregato casuale e informe di individui che nulla hanno in comune, e della folla, sovente pericolosa, che dalla massa eredita ogni difetto aggiungendovi la paura, che la spinge a muoversi in assenza di qualunque progettualità «in vista di una meta velocemente raggiungibile» (p. 20), la classe vede a fondamento la solidarietà, che le conferisce la sua arcinota autocoscienza: «coscienza di classe proletaria e solidarietà sono indistinguibili», scrive il professore dell’Università di Venezia alle pp. 39-40, commentando il pensiero di Walter Benjamin.
La folla, fondata sulla paura, è facilmente manovrabile dal primo agitatore; la classe, per contro, fondata sulla solidarietà, è in grado di muoversi da sé, dall’interno – per così dire, senza il bisogno di alcuna spinta esterna (e perciò, a differenza della folla, la classe può essere rivoluzionaria). Cavalletti svolge un’interessante (ed erudita, anche troppo per le esigenze della trattazione) ricostruzione storica del termine, dai fisiocratici al Foucault di fine anni ’70, passando per Marx, Arendt, Adorno, Weber, Schmitt e tanti altri.
Oggi, nell’epoca dell’individualismo e della massa, in cui la paura sembra prendere sempre più il sopravvento sulla solidarietà e in cui si scopre che in Italia la destra raccoglie tra gli operai e i disoccupati il doppio dei voti della sinistra, si può ancora parlare di classe? Esistono ancora persone nei cinque continenti, simili per condizione sociale e stili di vita relativamente omogenei, spinte a raggrupparsi in nome di ideali e interessi comuni?
La risposta, secondo Luciano Gallino, autore del libro Con i soldi degli altri, ed. Einaudi, è affermativa: esiste (ed è ben visibile la sua opera) una «classe capitalistica transnazionale», costituita dai manager delle grandi società, dai cosiddetti “investitori istituzionali” (società assicurative e finanziarie, fondi pensione ecc.) e dai proprietari super-ricchi, più o meno personalmente attivi nell’ambito della direzione delle proprie società.
Si tratta insomma del cosiddetto “partito di Davos”, cioè di coloro che si riuniscono annualmente a Davos, in Svizzera, per fare networking (cioè scambiarsi biglietti da visita e tessere nuove amicizie in vista di futuri partenariati economici). Ma questo è sufficiente per affermare che tale schiera di persone formi una vera e propria classe, operante nel proprio collettivo interesse? Il professore emerito di Sociologia dell’Università di Torino non ha dubbi:
l’evidenza disponibile risulta in misura debordante a favore dell’ipotesi che la classe capitalistica transnazionale sia per sé, non meno che in sé, una realtà materialmente e ideologicamente operativa su scala globale. L’evidenza viene anzitutto dalla storia. All’inizio del Novecento i capitalisti in proprio non meno che i capitalisti per procura di Berlino, Londra, Parigi e New York già agivano come una classe unitaria, intrattenendo tra loro intense relazioni, in presenza come a distanza. Poi v’è l’evidenza della nostra epoca. Il processo di globalizzazione, promosso e guidato dalla classe in oggetto, ha ricompreso in sé anche l’adozione da parte delle corporation industriali e finanziarie, investitori istituzionali compresi, di paradigmi di riferimento, modelli organizzativi, forme di divisione internazionale della produzione, tipi di organizzazione del lavoro, codici linguistici e comportamentali che sono nella sostanza identici in tutti i paesi del mondo (pp. 136-137).Non solo dunque la classe capitalistica esiste, ma è ben viva ed attiva, e più potente di quel che si potrebbe immaginare: essa è in grado di movimentare, nel suo insieme, una quantità di denaro pari al PIL del mondo intero. Mai un così grande potere è stato concentrato in così poche mani, sottolinea Gallino, e mai esso è stato esercitato in modo tanto poco trasparente e comprensibile per gli altri. Con questi risultati:
le conseguenze umane dei fallimenti dell’economia mondo [...] si possono compendiare in un paio di proposizioni. Gran parte dei cinque miliardi e mezzo di individui che da generazioni patiscono un alto grado di insicurezza socio-economica, e in tempi più recenti intravvedevano la possibilità di ridurlo, sta invece sperimentando un ulteriore aumento di essa. Mentre gran parte del miliardo circa di individui che avevano raggiunto nei decenni trascorsi un grado di sicurezza relativamente elevato s’accorge che esso sta ora marcatamente riducendosi. Alle speranze deluse dei primi s’accompagnano così le frustrazioni preoccupate dei secondi» (p. 159).Che sia un alieno, cattivo e brutto, dal ceffo simile a una maschera di morte, a sfruttare l’uomo (come nel They Live di Carpenter), è un’idea ancora tollerabile. Ma fino a quando si potrà tollerare che sia l’uomo a sfruttare altri uomini, i bambini soldato o quelli messi a lavorare per tre centesimi di dollaro all’ora, le donne costrette a lavori defatiganti ed usuranti, e tutto in nome del profitto (anche quando lo si chiama infamemente “lealtà verso gli azionisti”)? A volte mi immagino uno storico del futuro che legga le pagine di questi nostri decenni e – sorridendo amaramente tra sé – commenti: è proprio fantascienza.
(«Il Caffè», 6 novembre 2009)
