Intorno al 1960 compaiono i primi studi sulla civiltà orale e sulla sua trasformazione in civiltà della scrittura. Sono gli stessi anni in cui in Occidente comincia a diffondersi la televisione. Da questa singolare coincidenza prende le mosse il libro di Cavicchia Scalamonti e Pecchinenda, Il foglio e lo schermo (ed. Ipermedium, 2007II), il cui titolo già ne riassume la tesi: siamo di fronte a una nuova epoca di trasformazione, dalla civiltà della scrittura a quella dell’immagine.
Non di coincidenza si tratta dunque, ma di un segnale; ci troviamo in una fase di transizione verso una nuova civiltà, quella dell’immagine, la cui prerogativa è il disordine, in quanto le immagini – televisive, informatiche, pubblicitarie – a differenza delle narrazioni scritte si presentano in maniera sincronica e destrutturata, come un ammasso irriconoscibile piuttosto che un sistema organizzato:
la stessa questione può essere posta nei termini seguenti: se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere (p. 15).Il libro dei due docenti di Sociologia (rispettivamente alla “Sapienza” di Roma e alla “Federico II” di Napoli) si pone come obiettivo da un lato la descrizione dei maggiori cambiamenti nati a seguito dell’invenzione e diffusione della TV, dall’altro – partendo dal ruolo storicamente rivestito dalla scrittura nell’evoluzione della modernità – la risposta alla domanda: la nostra società sta forse regredendo verso una cultura orale simile a quella che ha preceduto l’invenzione della scrittura? Con una trattazione ricca di spunti (tanto che a volte si rischia quasi di perdere il filo) e uno stile un po’ troppo abbondante di punti esclamativi, ma proprio per questo mai accademico o noioso, Scalamonti e Pecchinenda ricostruiscono la storia della modernità scritta, tra la filosofia e la sociologia, a partire dal parricidio di Socrate (filosofo dell’oralità) compiuto da Platone (la cui opera scritta è invece monumentale) fino all’analisi delle moderne tecnologie informatiche e dei videogame.
La conclusione è netta: non siamo affatto di fronte a un ritorno dell’oralità, basata essenzialmente sulla condivisione della conoscenza dal narratore all’uditore, e quindi su una forte socialità (è il narratore a indirizzare l’esperienza dell’uditore e a fornirle un quadro interpretativo). Ciò a differenza della cultura moderna, basata invece sulla lettura silenziosa e personale, dalla socialità debole (entro cui può svilupparsi l’individualismo moderno: il prototipo è il filosofo cartesiano, chiuso nella sua stanza radicalmente dualisticamente separato dal mondo, che da solo crea e guida se stesso). La nostra fase, tuttavia, non è un ritorno alla socialità ma un distacco definitivo da ogni esperienza condivisa, che degenera nei contatti virtuali dei social network e nei cosiddetti “rave party” in cui al posto dell’unione di soggettività diverse si ha un’unica grande fusione nell’indistinto della folla in estasi. Stiamo insomma perdendo i vantaggi offerti dalla scrittura senza ritrovare quelli su cui la civiltà orale era fondata: la memoria e la tradizione (cfr. al riguardo gli scritti di Z. Bauman, qui spesso citato). Una volta perduto definitivamente il foglio, rischiamo di rimanere da soli davanti a un video che riflette la nostra stessa immagine. Uno schermo vuoto.
(«il Recensore.com», 12 ottobre 2009)