America 1989. Joseph Wesbecker si reca di prima mattina sul posto di lavoro, con un AK47 semiautomatico lungo il fianco, tre diverse pistole e una borsa da palestra a tracolla piena di munizioni. Fa fuoco ripetutamente ma non a casaccio, (“sparava in maniera disciplinata”, annotò una guardia del servizio di sicurezza interno all’azienda); uccide sette persone, ne ferisce venti. Poi si punta una pistola sulla faccia e la fa finita.
Un giornale locale lo ritrae come un pazzoide inquieto, proveniente da una famiglia di genitori divorziati ed egli stesso sconvolto da due divorzi, abbandonato dal padre molti anni prima e con la madre in un ospedale psichiatrico. I colleghi superstiti si gettano di peso su questa immagine da psicopatico e rincarano la dose, dando la colpa al Prozac (e riuscendo a spuntarla in una causa collettiva contro la Eli Lilly, produttrice del farmaco).
Chiunque al suo posto avrebbe fatto la stessa cosa. «Erano tutti dalla sua parte, tutti capivano cosa aveva passato».
M. AMES, Social killer, ed. ISBN
M. AMES, Social killer, ed. ISBN
Il caso sembra chiuso e anche la normalità sembra tornare. Eppure - rileva Mark Ames, autore di Social killer, ed. ISBN - i conti non tornano del tutto. Perché gli ex colleghi di Wesbecker, che Ames comincia a intervistare singolarmente, lontano dai riflettori e dai tribunali, sanno perfettamente quanto quel gesto folle avesse una sua ragionevolezza intrinseca e quanto tutto l’episodio fosse comprensibile e forse addirittura prevedibile: «erano tutti dalla sua parte, tutti capivano cosa aveva passato. Il suo unico problema è che [aveva] sparato alle persone sbagliate» (p. 12). Insomma, chiunque al suo posto avrebbe fatto la stessa cosa. Wesbecker veniva infatti tartassato dai suoi capireparto da anni, costretto a mansioni eccessive, sgradevoli e nocive alla sua salute; ciò oltre a essere sottoposto - come tutto il personale dell’azienda - alla pressione psicologica creata dalla continua minaccia del licenziamento e della delocalizzazione della produzione; che non solo non aveva ottenuto gli aumenti promessi ma che, nel tempo, aveva visto il suo stipendio dimezzarsi. Non era un soggetto esposto più di altri alla cosiddetta “sindrome da ufficio postale” (“going postal”, in inglese, dalla prima strage analoga, compiuta in un ufficio postale nel 1986 da Patrick Sherrill in Oklahoma), bensì il protagonista di una tragedia che, anche secondo altri autori, si sarebbe potuto evitare. Perché non è stata la predisposizione personale, né la malattia mentale o l’assunzione di farmaci e nemmeno la fatalità la causa della tragedia: che affonda piuttosto le radici, secondo Ames, nella riforma del sistema industriale americano negli anni ’80 che va sotto il nome di reaganomics (l’economia voluta da Reagan, vero e proprio killer sociale del titolo) e il cui cocktail si compone di liberismo selvaggio, distruzione dello stato sociale ed esasperazione della competitività a tutti i livelli: «queste sparatorie sono radicate in un contesto socioeconomico. L’omicidio per rabbia è un fenomeno nuovo [...] comparso con Reagan» (p. 121).
Leggiamo oggi questo libro, a vent’anni di distanza e dall’altra parte dell’oceano, mentre i giornali ci segnalano che la Campania è la regione più povera d’Italia (quella con il più basso reddito pro capite), che il numero dei cassintegrati per la provincia di Caserta è in aumento, che recentemente a Recale due coniugi disoccupati con tre bambini hanno minacciato di gettarsi dal balcone e che probabilmente un certo numero di suicidi dell’ultimo anno va ricollegato alla povertà. Quand’è che toccherà a noi “diventare postali”?
(«Il Caffè», 17 luglio 2009)