lunedì 15 giugno 2009
N. Urbinati, Individualismo democratico, ed. Donzelli, 1997-2009
In Individualismo democratico Nadia Urbinati indaga sul rapporto tra la politica e la morale: è il ‘sentire comune’ a fondare il diritto, o viceversa? La democrazia può essere descritta formalmente come una procedura fondata sulle elezioni e sulla maggioranza numerica, o va ricondotta – come appuntava Emerson nel suo diario – a “quello spirito d’amore per il bene generale il cui nome esso assume” (p. XXXII)? Individuo è un termine inconciliabile con la società? Queste alcune delle domande cui il libro cerca di rispondere, riuscendoci molto bene.
In una esposizione compatta e lineare l’autrice ripercorre le tappe delle ‘invenzioni’ e delle fondazioni delle odierne democrazie occidentali, dall’Ottocento ad oggi, mettendo a confronto in maniera serrata moltissimi autori, che si sono confrontati sul sempre attuale tema della democrazia – con particolare riguardo, soprattutto, per i grandi esponenti dell’individualismo e del
trascendentalismo americano, Thoreau, Whitman, il citato Emerson, fino a Dewey, ed ancora, Tocqueville, Kant, Marx, Rorty, Arendt. Ne scaturisce un quadro complessivo che certamente non mette fine ad alcun discorso, ma suggerisce importanti direttrici per la prosecuzione del dibattito e soprattutto fa chiarezza su alcune questioni cruciali, e spesso fraintese, fino al pregiudizio e al luogo comune (come quella, ad esempio, tipica di un certo liberismo economico oggi imperante, che ritiene incompatibili la libera affermazione individuale con lo sviluppo armonico di una società che possa ‘prendersi cura di tutti’).
Ma procediamo con ordine. La risposta alla prima domanda è contenuta nelle radici stesse del fenomeno democratico: “a un certo punto della propria storia, un gruppo di persone (una nazione o un popolo) riconosce di essere in una relazione di cooperazione, di avere comuni sentimenti di giustizia” (pp. XII-XIII). Da questo riconoscimento scaturisce l’esigenza di un’organizzazione politica che renda possibile ed efficace la convivenza e l’interazione civili; nessuna democrazia può nascere (e funzionare) in sua mancanza. Si può sintetizzare questa conclusione con la massima di Emmanuel-Joseph Sieyès: ‘la nazione è prima della costituzione’. A valle si trovano tutte le procedure, i codici giuridici e le istituzioni preposte alla salvaguardia del vivere civile: ma il fine (e il fondamento), è sempre la giustizia, non il diritto (che è suo mezzo). Così come è la preesistente etica condivisa a venir tradotta e racchiusa a posteriori nelle leggi, non uno ‘spirito della legge’ a suggerire come gli uomini dovrebbero essere e comportarsi; va da sé che la norma dovrà, a posteriori, essere in grado di prescindere da quell’etica – nella misura in cui essa aspira ad essere applicabile in maniera imparziale e universale – ma è sempre il bisogno etico di giustizia a dover guidare la penna del legislatore e del giudice, mai un desiderio di mera correttezza formale dell’esecuzione della legge.
Tutto ciò richiede l’utilizzo di un linguaggio ordinario, alla portata dell’‘uomo comune’, scevro dai tecnicismi della burocrazia e dall’altisonanza dei testi ‘ufficiali’. Questo è un fondamentale obiettivo del volume: ricondurre il dibattito sulla democrazia in prossimità dei cittadini che la democrazia si trovano ad incarnare quotidianamente, ciascuno nel proprio ruolo e al proprio posto. Cosa tanto più urgente oggi, dove assistiamo a una forte usura delle istituzioni democratiche e a una sfiducia in crescita verso i governi e verso la stessa politica. La democrazia è un esercizio continuo, anche quando si basa sulla delega, per cui i singoli cittadini non possono prescindere dal prendere coscienza in maniera chiara dei meccanismi e delle finalità delle strutture politiche: perciò l’autrice si sforza di mettere la teoria della democrazia e della giustizia ‘sulle gambe della cultura etica diffusa’. Perché l’unica società che riesce a mettere al bando un crimine (per fare un esempio lampante: il cannibalismo) è quella nella quale a ogni singolo cittadino ripugna nella maniera più assoluta quel tipo di atto; in tutte le altre, anche le più ‘moralistiche’, si potrà tenere a bada il fenomeno con una serie di divieti, ma alla fine il crimine – tanto più agognato quanto più proibito e quanto più a lungo represso – dilagherà. In breve, una società diventa ‘buona’ non quando si riferisce a codici morali prescrittivi della bontà, ma quando la pratica del ‘bene’ viene portata avanti ogni giorno da ogni singolo membro. Questo vale, a fortiori, per tutto ciò che una certa società vuole contrastare: l’indigenza, la disoccupazione, l’alcolismo e via discorrendo. Ciò risponde alla seconda domanda. La democrazia non è una ‘lettera’, ma uno ‘spirito’; il quale, tuttavia, non può rimanere a lungo disincarnato.
Quella tra individuo e società, spiega Urbinati, è una tensione, non una contrapposizione: quanto più la norma è interiorizzata dai cittadini, tanto più il loro agire pubblico e collettivo è armonioso ed efficace. Viceversa, quando la norma è vista come una imposizione eteronoma, il dissenso si converte presto in trasgressione (come osserviamo spesso a nostre spese: più si sostiene che le tasse siano un furto operato dallo Stato che va ad impinguare un welfare a beneficio dei fannulloni, più cresce l’evasione fiscale). L’individualismo democratico, mostra l’autrice seguendone la genesi, non si nutre di una dimensione antisociale, ma di una spinta dell’individuo ad essere sincero con se stesso e con gli altri: da questo slancio di onestà, sincerità e fiducia, l’individualismo vede nascere un’armonia sociale adatta a degli uomini liberi e ‘uguali’ (nel senso ovviamente della parità, non della sovrapponibilità). Esso crede nel valore della fiducia in se stessi e lo sostiene fino all’intransigenza, ma “non induce a pensare che l’agire morale sia una battaglia solitaria della coscienza buona contro un universo governato da forze cieche o malvagie” (p. 193). Si tratta di un sistema sociale in cui non esistono identità comunitarie, ma solo individuali, in cui nondimeno il tessuto è innervato da “stili e credenze condivise” (ivi).
L’individualismo democratico, conclude Urbinati, è una cultura, non una teoria. Una prassi basata sulla partecipazione e al contempo sulla mancanza di omologazione. Siamo oggi in un tempo che possiede tutti gli strumenti per affrancarsi sia dal totalitarismo della comunità sia dal totalitarismo dell’individuo. Riscoprire la socialità dell’uomo è il compito che ci attende all’inizio di questo nuovo millennio.
(«ReF», giugno 2009)
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