lunedì 20 aprile 2009

Etica d'impresa/2

Alla fine di febbraio “L’Espresso” ha pubblicato un servizio sugli splendori e le miserie della Datch, azienda multinazionale nata nel Nord-est d’Italia, la quale ha basato il suo successo su una venefica miscela di sfruttamento, lavoro minorile, molestie sessuali, intimidazione, violenze e inquinamento, con i due fratelli-fondatori più volte condannati dalla magistratura ma sempre a piede libero. In poche parole: un’azienda, come ha scritto il settimanale, «che ha poco di etico».
Per altri versi, tuttavia, l’etica si fa strada nel mondo delle aziende tramite la certificazione SA8000: in Italia sono quasi 800 le aziende che già la posseggono (i dati risalgono a marzo 2008). Nel panorama nazionale brilla la Campania (nonostante il primato spetti alla Toscana), con il suo 12,6% del totale (ben 100 le aziende certificate, di cui 19 nella provincia di Caserta).
SA8000 è uno standard internazionale che elenca i requisiti per un comportamento eticamente corretto delle imprese: tali requisiti includono diritti umani, diritti dei lavoratori, tutela dei minori, salvaguardia dell’ambiente, sicurezza sul lavoro. L’azienda che aspira ad ottenere tale certificazione si impegna a non utilizzare o sostenere il lavoro infantile (al di sotto dei 15 anni),

L’azienda non può più limitarsi al mero rispetto formale delle leggi, ma deve preoccuparsi della condizione di fatto di ogni singolo lavoratore.

a non fare ricorso al lavoro obbligato, a garantire un luogo di lavoro sicuro e salubre per i lavoratori, a non operare discriminazioni tra i lavoratori e via discorrendo (il testo completo della norma è scaricabile da internet presso il sito della SAI-Social Accountability International, all’indirizzo www.sa-intl.org). Ma il dettaglio che colpisce più d’ogni altro è il seguente: «8.1 L’azienda deve garantire che il salario pagato per una settimana lavorativa regolare sia almeno conforme ai minimi retributivi legali o industriali e che sia sempre sufficiente a soddisfare i bisogni primari del personale, oltre a fornire un qualche guadagno discrezionale». Insomma, l’azienda non può più limitarsi al mero rispetto formale delle leggi, ma deve preoccuparsi della condizione di fatto di ogni singolo lavoratore: «Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici, ma anche andare al di là investendo “di più” nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate» (secondo la formulazione utilizzata dal Governo italiano e indicata dalla Commissione europea nel suo “Libro verde” del 2001).
Va affermandosi dunque l’idea della “responsabilità sociale delle imprese”, definita come «integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle aziende e organizzazioni nelle loro attività commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate» (D.lgs. 81/2008). Le imprese innervano il tessuto sociale e devono impegnarsi a vivere in osmosi con esso, trattando il territorio come un terreno da coltivare e non come una miniera da sfruttare.
Difficile in verità concluderne, con gli estensori della voce “responsabilità sociale d’impresa” della Wikipedia che oggi i cittadini esigono dalle aziende, dal punto di vista etico, «un impegno quotidiano e credibile»: il fatturato di aziende come la Datch attesta che, al contrario, certi modi di fare sono ancora “vincenti”. Per ora.

(«Il Caffè», 17 aprile 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano